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domenica 19 ottobre 2025

Di' solo una parola

"Alzati, anch'io sono un uomo" (Philip Galle)

20 ottobre: San Cornelio centurione, il primo pagano convertito (I secolo)

Cornelio potrebbe essere stato il primo cristiano non circonciso. Prima di lui, forse era capitato a un funzionario etiope, un eunuco incontrato dal discepolo Filippo sulla strada da Gerusalemme a Gaza; Filippo aveva notato che sul suo carro cercava di leggere Isaia, senza capirlo (del resto, scrollare un papiro su un carro con le sospensioni del primo secolo...) e ne aveva approfittato per attaccare bottone, spiegando che il Messia promesso da Isaia era appunto Gesù Cristo. Non è però chiaro se l'eunuco, prima di essere battezzato, fosse da considerare già ebreo, una religione che in Etiopia aveva fatto proseliti: il fatto che cercasse di leggere Isaia è un forte indizio in tal senso. Magari avrebbe voluto esserlo, ma in quanto eunuco poteva essergli impossibile circoncidersi. Si tratta insomma di un caso abbastanza particolare (documentato nell'ottavo capitolo degli Atti degli Apostoli), laddove il battesimo di Cornelio è presentato con tutti i crismi di un precedente storico e fondativo: da Cornelio in poi, tutti i pagani possono essere battezzati, senza previa circoncisione (grazie, Cornelio!)

Prima, no. La "Via", la confraternita dei seguaci di Gesù di Nazareth, era una setta ebraica, basata per lo più a Gerusalemme e definita da credenze che avevano un senso solo per la comunità ebraica (anche se piuttosto eterodosse): Gesù era il Messia, il salvatore che Dio aveva promosso al popolo ebraico tramite i profeti. Ma Cornelio non è un ebreo, anzi è un esponente delle forze di occupazione: si tratta di un centurione romano "della Coorte detta Italica" di stanza a Cesarea di Palestina, capitale della provincia romana Giudea. È però, già prima della conversione, un uomo "timorato di Dio", che prega e dona i suoi averi ai poveri, perché a raccontare la sua storia è Luca, sempre negli Atti (cap. 10), e Luca ai poveri ci tiene più di ogni altro evangelista. In effetti l'angelo che finalmente appare Cornelio lo dice ben chiaro: "Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite dinanzi a Dio ed egli si è ricordato di te". Forse se Cornelio avesse pregato di meno (o donato di meno) il cristianesimo sarebbe rimasta una varietà particolare di ebraismo; i proseliti sarebbero rimasti per lo più in Palestina prima della diaspora, e poi chissà. Ma Cornelio evidentemente aveva qualcosa da chiedere al Signore, e così il Signore gli propone di mandare a prendere Pietro, che in quel periodo si trovava a Jaffa e aveva appena risuscitato una discepola. Mentre i servi di Cornelio si mettono in strada per cercarlo, Pietro a Jaffa ha quello che a volte viene chiamato un sogno, ma è più propriamente una visione estatica: una tovaglia nel cielo, piena di animali commestibili ("In essa c'era ogni sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo") ma impuri, non koscher. "Coraggio, Pietro, uccidi e mangia!", dice una voce fuori campo. Pietro rispose: Non sia mai, Signore, non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro". La voce gli risponde: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano". È l'abolizione delle impurità alimentari, uno dei momenti fondativi del cristianesimo: questa religione con tanti vincoli, ma forse per la prima volta nella storia puoi mangiare davvero qualsiasi cosa, non sono previsti tabù alimentari. Non è un sogno, Luca ci tiene a notare che Pietro era sveglio su un terrazzo (quindi stava davvero guardando il cielo) dove era salito a pregare in attesa, dettaglio realistico, che gli cucinassero il pranzo. Pietro non sa bene come interpretare la visione – è tornato il Pietro ottuso dei vangeli, che doveva sempre farsi spiegare le parabole – ma è lo Spirito stesso ad avvisarlo che tre uomini lo cercano: "Alzati, scendi e va' con loro senza esitazione, perché io li ho mandati". Sono ovviamente i servi di Cornelio. Pietro si reca subito con loro a Cesarea, dove Cornelio si inginocchia davanti a lui; al che risponde imbarazzato che non vale la pena, è solo un uomo come Cornelio. Discutendo col centurione, Pietro capisce il significato della sua visione: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga". L'intuizione è immediatamente confermata dallo Spirito stesso, che scende su tutti i presenti, ebrei e pagani. "E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio": i sintomi insomma sono gli stessi osservati dagli apostoli durante la Pentecoste. A quel punto Pietro non può che battezzare Cornelio e i suoi sodali, riconoscendoli come cristiani: come si può negare il battesimo a chi è già stato cresimato direttamente dallo Spirito? Si tratta comunque di un momento fondamentale: la circoncisione era il discrimine più evidente e insormontabile tra ebraismo ed ellenismo, queste due culture che da secoli convivevano nel Mediterraneo orientale come l'acqua e l'olio, senza mescolarsi. Si trattava di una pratica rituale di origine preistorica, diffusa variamente in Africa e in Medio Oriente ben prima della nascita dell'ebraismo, e assolutamente esecrata dalle dinastie di lingua greca che avevano controllato la regione da Alessandro in poi, prima di cederla ai Romani. 

Tornato a Gerusalemme, l'Apostolo dovrà affrontare una lunga discussione con i confratelli, i quali evidentemente ignorano ancora come Pietro abbia battezzato Cornelio, visto che trovano già sufficientemente scandaloso il fatto che egli abbia pranzato alla tavola di un non circonciso! Per giustificarsi, Pietro riporta tutto quel che è successo, a partire dalla visione, il che spinge Luca a raccontare tutto di nuovo nel capitolo 11, stavolta in prima persona: una ripetizione che troveremmo inutile, se Luca fosse soltanto un narratore. Ma in quanto cronista, Luca doveva trovare necessario il fatto che Pietro fornisse una sua versione, benché essa coincida con quella già scritta da lui. Forse è un modo per avvertire che aveva una sua fonte, indipendente da quella di Pietro; o è un modo per farcelo credere. L'episodio, in effetti, si trova in un punto strategico degli Atti, tra la conversione di Paolo (che sarà il protagonista della seconda parte del libro) e la nascita della comunità di Antiochia, dove Paolo verrà invitato da Barnaba, e dove nascerà non soltanto la carriera di predicatore di Paolo, ma la religione chiamata cristianesimo: qualcosa di alternativo alla fede ebraica, praticata indifferentemente da circoncisi e non circoncisi. A dispetto di tutti i legami storici e narrativi che legano il cristianesimo a Gerusalemme, effettivamente la nuova religione non poteva che nascere in una città molto più dinamica e cosmopolita: se a Gerusalemme il sentimento religioso e la persecuzione romana portavano continuamente alla nascita di fazioni e sette spesso ossessionate dalla purezza etnica o dottrinaria, ad Antiochia gli ebrei non erano che una spezia in un grande calderone che mescolava ogni cultura, producendo concetti nuovi. Lassù rispettare le strette regole alimentari della Torah era oggettivamente difficile, lo stesso Pietro non ci sarebbe riuscito a lungo. E per quanto Pietro sia considerato vescovo di Antiochia, ancora prima che di Roma, a portare il cristianesimo nella metropoli non fu né lui, né Paolo, né Barnaba: anzi quest'ultimo, inviato per primo dagli apostoli in città per cercare di capire cosa stava succedendo, aveva constatato che la fede in Cristo era già stata diffusa da non meglio precisati "cittadini di Cipro e di Cirene". 

Ora facciamo un piccolo esperimento mentale. Immaginiamo cosa succederebbe alla Storia della Chiesa se cancellassimo i capitoli 10 e 11; se decidessimo per un attimo che il sogno di Pietro è un'invenzione posteriore (già modellata nello stile apocalittico che in quegli anni andava di moda, ma che per il Nuovo Testamento è una novità) e Cornelio un personaggio di finzione. Se ne dedurrebbe che l'iniziativa di spargere il Vangelo tra i gentili, trasformandone radicalmente il messaggio, sia stata l'iniziativa di qualche sconosciuto cipriota o africano (Cirene era la città libica di cultura greca). Come a dire che il cristianesimo sia nato per gemmazione spontanea, in una città in cui ancora nessun apostolo era arrivato; e il primo che arriva – Barnaba – deve limitarsi ad accettare che le cose stanno già così, Gesù ormai è venerato anche dai gentili, la cosa può piacere o non piacere: a Barnaba e a Paolo piacerà, ma sappiamo che altri a Gerusalemme non apprezzeranno. Ma è troppo tardi, per le sue dimensioni Antiochia non può che sovrastare Gerusalemme; Paolo è il principale predicatore che si assumerà le responsabilità di questa innovazione, ma non ne è l'autore (arriva dopo Barnaba) e all'inizio non era neanche considerato un vero e proprio apostolo. Si dice spesso che Paolo abbia inventato il cristianesimo ad Antiochia, ma è Antiochia che ha fatto di Paolo un grande predicatore. Detto questo, appare chiaro quasi subito che i cristiani gentili di Antiochia e gli ebrei della "Via" di Gerusalemme sono due gruppi distinti, che avrebbero facilmente preso strade diverse. Se questo non succede subito, è anche per una questione economica: Barnaba e Paolo non si limitano a predicare il Vangelo, ma organizzano una colletta, raccogliendo i fondi per gli "anziani" di Gerusalemme: il pretesto sarebbe stata una carestia che secondo un misterioso profeta (Agabo, il "grillo"), avrebbe colpito tutta la terra, ma che gli anziani in particolare. Possiamo ritenere che si trattasse sempre degli apostoli originari, testimoni dell'insegnamento e della passone di Gesù, la cui sopravvivenza in terra con gli anni si faceva sempre più preziosa: in attesa che qualcuno scrivesse i vangeli, il Vangelo erano loro. Nel momento in cui la Chiesa di Antiochia probabilmente diventa, per dimensioni, il principale contribuente economico della Chiesa di Gerusalemme, l'idea che i pagani possano essere battezzati non può più essere respinta: forse è questo il momento in cui Pietro sperimenta la sua visione – o si ricorda di averla sperimentata. Luca, dovendo ricostruire l'ordine cronologico, decide di anteporla alle prime notizie della comunità di Antiochia: non ha scelta, se la visione venisse dopo, bisognerebbe ammettere che i pagani hanno cominciato a convertirsi senza aspettare gli apostoli. 

Addirittura Luca potrebbe essersi inventato l'intero episodio, coinvolgendo Pietro che dopo i primi capitoli degli Atti era sparito dal radar, ma restava in teoria l'apostolo più autorevole (anche se questa autorità viene messa in discussione più tardi, quando Pietro dà l'impressione di non comandare né a Gerusalemme né ad Antiochia). Quanto al centurione di Cesarea, Luca avrebbe potuto ispirare a un altro centurione che Gesù stesso aveva incontrato a Cafarnao, sul Lago di Tiberiade. L'episodio è riportato, oltre che da Luca, anche da Matteo, l'evangelista più interessato al rapporto tra ebraismo e nuovo cristianesimo. Non ne fa menzione invece il più tradizionalista e asciutto Marco. A questo centurione, che chiede a Gesù di intercedere per un suo schiavo malato, Matteo mette in bocca una frase che tutti i cristiani ripetono ogni domenica a messa: "O Signore, non son degno ti partecipare alla tua mensa, ma di' solo una parola e il mio servo sarà guarito". Gesù ne rimane colpito, e dichiara di fronte ai discepoli: "In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti". Non solo il servo viene guarito, ma tutti noi non circoncisi veniamo salvato in quell'esatto momento. L'episodio, come si vede, riflette la concezione particolare di Matteo, ribadita nella parabola degli invitati alle nozze: anche ammesso che Gesù fosse venuto originariamente per salvare il popolo ebraico, esso ha dimostrato di meritare la salvezza meno dei gentili, i quali hanno rivelato maggiore fede, per quanto non abbiano origini altrettanto nobili (nella parabola, lo sposo snobbato dai suoi invitati, chiede ai servi di andare agli incroci delle strade e invitare i primi che passano). Luca, se da un lato attenua anche in questo caso la veemenza da self-hating jew dell'ex pubblicano Matteo, non si trattiene da aggiungere il dettaglio sociale: il centurione in questione era persona popolare e generosa, e agli ebrei aveva già regalato un'intera sinagoga. Ma soprattutto, questo centurione Luca potrebbe averlo sdoppiato, inserendone una copia nel punto degli Atti degli Apostoli in cui era più acconcio ribadire che Gesù Cristo non fa differenze tra pagani e circoncisi. 

venerdì 17 ottobre 2025

(La rimozione del pederasta 2:) questa non è una pesca


Tra i vari generi che una volta andavano molto al cinema, e adesso sono scomparsi, quello che vi viene in mente è sempre il western, ma solo perché non avete il coraggio di ammettere che i primi due a cui state pensando sono i film d'amore e quelli erotici. 

[Questo pezzo prosegue il discorso cominciato qui, ma credo che si possa leggere anche per primo].

I film d'amore sono difficili, perché deve esserci un conflitto; ma che conflitto può esserci oggi che si metta contro due persone che si amano? Se c'è dev'essere qualcosa di così grave che l'amore passa giocoforza in secondo piano: se per dire il problema è che uno dei due si ammala o muore, sarà più facilmente un film sulla malattia o sul lutto, ne abbiamo tutti visti a palate e non ci sembrava di vedere film d'amore – che poi esistono, alla fine, i film d'amore? Forse qualche vecchia pellicola in bianco e nero. Anche se è la famiglia che si oppone, per motivi culturali o religiosi, il film impiegherà più tempo a descrivere/denigrare queste culture e queste religioni, più che a illustrare l'amore in sé. Succede la stessa cosa in letteratura, anche se per un paio di decenni una forma di romanticismo è resistita nella nicchia LGBT. Qui ancora ogni tanto qualcuno aveva ancora il coraggio di mettere l'amore in primo piano; si trattava quasi sicuramente di un amore osteggiato dalle convenzioni sociali, un amore da tenere nascosto a genitori o parenti, e però certe volte alla fine il vero ostacolo era l'io di un protagonista che questo amore doveva accettarlo in sé stesso. Davvero: anche gli eterosessuali, se volevano sentire parlare d'amore o guardare un film su questo tema specifico, a un certo punto più facilmente si trovavano davanti a prodotti scritti da gay, su personaggi gay, anche se non necessariamente concepiti per un pubblico soltanto gay. Ma non è stato sempre così, almeno sin da Platone? E magari i posteri avranno la stessa difficoltà a raccapezzarsi che noi abbiamo con la sessualità degli antichi: insomma, qui abbiamo testimonianze di legislazioni piuttosto severe nei confronti della pederastia, dopodiché poeti e filosofi non parlano d'altro... come si spiega questa contraddizione? E mentre ce lo domandiamo, i nostri artisti stanno perpetrando lo stesso equivoco. Dopo di noi magari verrà qualcuno che farà fatica a capire come coesistesse l'omofobia dilagante con il successo di Call Me By Your Name: un film che tra l'altro sembra così lineare e liberato – magari i posteri ne ignoreranno la storia produttiva travagliatissima. 

Call Me By Your Name, tratto da un libro che fu opzionato per il cinema ancora prima di essere pubblicato – dopodiché trovare un regista e degli interpreti fu piuttosto complicato – parte da una situazione non dissimile da Stranizza d'Amuri: due ragazzi si innamorano. Siccome non siamo nelle campagne siciliane, ma nella residenza estiva di un raffinato professore di archeologia, questo innamoramento è tollerato; forse persino previsto/programmato. A riprova che quel che conta davvero nella vita è dove ti capita di nascere. Benché gli autori abbiano modificato parecchio il resoconto autobiografico del romanzo (mescolandolo probabilmente con la loro autobiografia), non si sono permessi la licenza di Stranizza: qui i due protagonisti non sono coetanei, uno è un giovane adulto di 24 anni (spoiler) sta per sposarsi; l'altro è un diciassettenne minorenne e molto incerto sul da farsi. A chi obiettasse che Guadagnino non prevedesse lo stesso pubblico di Fiorello, possiamo obiettare che lo stesso regista, per sua ammissione, voleva fare un film "per le famiglie" (e che anche questa scelta abbia determinato l'allontanamento amichevole di James Ivory, che aveva collaborato alla scrittura ma che immaginava un film diverso). Dunque Guadagnino si è posto il problema che Giuseppe Fiorello non voleva porsi: filmare un adulto che seduce un adolescente, senza che questa seduzione sia percepita dallo spettatore come scandalosa e disturbante. Non c'è dubbio che ce l'abbia fatta, ma come? Filmando Chalamet che si masturbava con una pesca noce – no, scusate.

È un po' più complicato di così.
Ma non resistevo.

E che mammifero
E non ho neanche letto il libro, per cui non so fino a che punto il procedimento non fosse stato già messo a punto dall'autore. Ma insomma anche in questo caso occorre escludere, nel modo più reciso, che in un qualsiasi momento del film un solo spettatore possa farsi venire in mente che è il 24enne che sta davvero provandoci col 17enne. E come si fa? Si mostra un 17enne polimorfo e perverso che si scoperebbe qualsiasi cosa – uomini, ragazze, frutta, biancheria sporca, fumetti Bonelli, al punto che quando riesce finalmente a dare un bacio ad Armie Hammer, siamo tutto sommato tranquillizzati, dai, perlomeno è un mammifero. Il tutto comunque abbastanza realistico, perché alla fine a 17 anni si prova veramente di tutto, magari non guardi la frutta ma dipende anche da cosa c'è in frigo quel giorno. Comunque è opportuno, anzi necessario, che il primo passo lo faccia il ragazzino; e anche il secondo e il terzo, non è che si possa correre il rischio che qualche spettatore non si accorga degli inviti, che devono essere espliciti e reiterati. Questo persino a danno dell'intreccio, che a un certo punto diventa laschissimo: certe scene di una volta in cui due personaggi sorprendono gli spettatori baciandosi all'improvviso non sono più praticabili, qui devono prima dichiararsi e poi rifletterci per bene, facendo nel frattempo altre esperienze per sicurezza e per completezza. Un'altra cosa su cui i posteri potrebbero non raccapezzarsi è la fluidità, insomma qui sono tutti bisessuali, persino il padre – com'è che un film fa il botto proprio nel periodo in cui la comunità LGBT sembra più tribalizzata e compartimentata che mai? Di certo la fluidità ha una funzione fondamentale nel rassicurare lo spettatore: nessuno è stato sedotto, manipolato o rassegnato ad amare qualcuno in mancanza di alternative; le alternative c'erano, ottime e abbondanti, magari a voi non è capitato quell'estate di dover scegliere tra Armie Hammer ed Esther Garrel, ma nei film succede. Nei film d'amore. Call Me By Your Name è un film d'amore.

Non è un film erotico – quelli proprio non si fanno più. Neanche Guadagnino, che l'occhio ce l'avrebbe, e a volte dà proprio la sensazione di volerli fare – l'effetto però è quello di un film che mette insieme tutte le scene di raccordo, quelle che nei film erotici intervallavano le scene interessanti e servivano per fare minutaggio – in sostanza sta facendo il contrario di quello che facevano i suoi coetanei a 17 anni di notte fonda col vhs. Del resto, mica è colpa sua. I film erotici non si possono davvero più fare, quando qualcuno ci prova di solito il risultato è deprimente. Mi ricordo ancora la gente che rideva d'imbarazzo al cinema durante La vie d'Adèle e fidatevi: non era una scena ridicola. È facile individuare l'assassino del genere erotico: è stata la pornografia. Insomma, essa regna su Internet, e nel frattempo il genere erotico è completamente sparito dai cinema: può trattarsi di una coincidenza? Non può. Ma se se entrambi i fenomeni dipendessero da una ragione più a monte? [Continua! Senza pudore! Non finisce mai!]

giovedì 16 ottobre 2025

Parlare di semiti è antisemita

[Questo pezzo è uscito sul Manifesto dell'11 ottobre].
Se a Gaza si è arrivati a una tregua, forse davvero è perché Trump sperava nel Nobel per la pace; un qualche merito lo avranno avuto anche i manifestanti che in tante parti del mondo sono riusciti a mantenere alta l'attenzione, e l'indignazione per quello che stava succedendo. Ora, un fatto singolare che ha stupito molti osservatori è che in Italia tra questi manifestanti vi siano molti studenti. Com'è possibile che un'intera generazione che fino a quel momento sembrava in pieno “letargo politico”, per dirla con Baricco, si sia ritrovata in prima fila con idee molto nette? Proprio mentre i media tradizionali (ma anche i social network) sembravano molto più interessati a riflettere la propaganda israeliana? Se devo essere sincero, non so come sia andata. Ma mentre mi interrogo sulla questione, la maggioranza di governo ha già trovato il colpevole: sono io. Cioè noi – insomma, gli insegnanti. Il teorema è elementare: dal momento che gli studenti non possono maturare idee proprie, e sicuramente non possono essere diventati propal leggendo i giornali, o guardando la tv, o scrollando i telefoni... devono per forza essere stati indottrinati a scuola, da diabolici insegnanti antisemiti. È l'opinione, evidentemente autorevole, del presidente del tempio ebraico di Monteverde, Riccardo Pacifici, che trovandosi qualche giorno fa a rendere conto del fatto che alcuni suoi correligionari adulti fossero usciti dalla sua sinagoga per picchiare degli studenti che manifestavano, avrebbe affermato: “Ci sono alcuni professori delinquenti che sobillano gli studenti”. Caso risolto, e anche la soluzione è semplice, talmente semplice che la sta presentando il senatore Gasparri: un disegno di legge “per il contrasto all’antisemitismo”. 

Questo disegno prevede che gli insegnanti e studenti partecipino d'ora in poi a “corsi annuali di formazione”... “al fine di favorire il dialogo tra generazioni, culture e religioni diverse”: insomma visto che gli anziani giornalisti filoisraeliani fin qui non sono riusciti a interessare gli studenti, non resta che obbligare questi ultimi ad ascoltare le loro concioni, grazie alle quali gli studenti impareranno a “contrastare le manifestazioni di antisemitismo, incluso l’antisionismo”. Viene messo così nero su bianco una volta per tutte che l'antisionismo è una forma di antisemitismo, un obiettivo a cui la macchina propagandistica israeliana tiene molto da sempre. Questi corsi di formazione annuale, chi li pagherà? Il senatore Gasparri ci ha pensato. “All’attuazione del presente articolo si provvede nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”. Traduciamo: pagheranno le scuole con le risorse che hanno già; ne resteranno meno per organizzare altri corsi e visite d'istruzione. Dunque gli esperti che insegneranno agli studenti a non criticare Israele, li pagheranno gli stessi studenti.

L'altro strumento con cui Gasparri spera di stroncare l'antisionismo è la cara vecchia delazione, o per meglio dire “tempestiva segnalazione di atti a carattere razzista o antisemita nell’ambito scolastico e universitario”. Non solo chi si lasciasse sfuggire una critica a Israele si troverebbe accusato di un reato, ma il collega che non lo avesse segnalato rischia la sospensione dall'insegnamento per sei mesi. Tutto questo dopo che per anni ci siamo sentiti dire dai pedagoghi di area governativa quanto fosse importante recuperare l'autorevolezza della figura del Maestro, ebbene, no: c'è una cosa persino più importante dell'autorevolezza magistrale, ed è il buon nome di Israele: per evitare che sia infangato anche al Maestro tocca lavorare nel timore che gli studenti fraintendano un discorso e facciano rapporto. Si domanderà, lo stesso maestro, se non sia proprio il caso di saltare tutte quelle pagine di Storia che lasciano intendere come la relazione tra gli ebrei e la loro Terra Promessa non sia un destino divino, ma il risultato di una serie di circostanze umane, fin troppo umane – e se qualche studente capisce male e denuncia?, meglio saltare il capitolo intero.

Il decreto a firma Gasparri non fa che recepire la risoluzione del Parlamento europeo che chiedeva di adottare “l’integrale definizione operativa di antisemitismo approvata nell’Assemblea plenaria dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto” (IHRA). L'adozione di quella definizione fu in effetti un grande successo per la propaganda israeliana – sulla carta: perché nella pratica capita spesso che i propagandisti per eccesso di zelo si rovinino da soli. In particolare quella Definizione Operativa è un disastro, che con l'obiettivo evidente di estendere l'etichetta “antisemitismo” a qualsiasi critica nei confronti di qualsiasi cosa possano fare gli israeliani in qualsiasi situazione, finisce per denunciarsi da sola. Non ci sarebbe nemmeno bisogno del parere di tanti esperti, pure autorevoli che l'hanno già da anni demolita (persino un gruppo di accademici israeliani!), perché davvero: basta leggerla. Nella Definizione è scritto, tra l'altro, che è antisemitico anche soltanto “accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele o a presunte priorità degli ebrei nel mondo che agli interessi della loro nazione”: dobbiamo insomma presumere che tutti i cittadini ebrei nel mondo, in qualsiasi momento e in qualsiasi periodo, non stiano anteponendo la fedeltà a Israele agli interessi di qualche altra nazione. Possibile? Vi immaginate se fosse vietato affermare che non tutti gli italiani mettono al primo posto l'Italia, ebbene per gli italiani di fede ebraica questo non si può più assolutamente sostenere: secondo la Definizione è già antisemitismo. 

Prendiamo un ebreo a caso, che so, Theodor Herzl. Per quanto potesse essere un buon suddito dell'Impero Austroungarico, senz'altro Herzl, mentre fondava il movimento sionista, manifestava l'esigenza di anteporre alla fedeltà per la propria nazione di provenienza un progetto diverso... ebbene, secondo la Definizione Operativa anche questa affermazione sarebbe già antisemita. In pratica non si potrebbe riconoscere ai sionisti di aver perseguito un progetto nazionale: se lo facciamo, non solo qualche studente potrebbe denunciarci per antisemitismo, ma qualche collega potrebbe essere sospeso perché non ci ha denunciato prima: insomma sarà opportuno saltare anche la pagina del manuale che parla di Herzl e della nascita del Sionismo. Non so se questo aiuterà gli studenti a diventare meno antisionisti, ma a questo punto non è più un problema mio. Vedetevela con Gasparri. 

domenica 12 ottobre 2025

Un ragazzo originale

12 ottobre: San Carlo Acutis (1991-2006)

Di Carlo avrete probabilmente sentito parlare, perché è stato canonizzato sulla fine dell'estate. Carlo, per farla breve (ma tanto lunga non è) era un bravo ragazzo, orgoglio dei suoi facoltosi genitori, appassionato di informatica e di miracoli eucaristici, forse tentato da una precoce vocazione sacerdotale, che un giorno d'autunno si mise a letto col mal di testa: sembrava un'influenza ma era una leucemia fulminante che lo uccise nel giro di pochi giorni. Aveva quindici anni. Sono maledette cose che succedono, ed è inutile chiedersi il perché – ma ce lo chiediamo lo stesso, non avremmo inventato le religioni altrimenti.

Quando morì il loro unico figlio, il senatore Paolino e la moglie Therasia ebbero l'idea di seppellirlo accanto alle ossa di due bambini, ritenuti martiri (Giusto e Pastore). Era la fine del IV secolo, l'oltretomba cristiano non era ancora stato minuziosamente codificato; ma se quei due bambini erano in paradiso, forse anche anche il figlio di Paolino e Therasia sarebbe andato incontro a un simile destino. Nel XXI secolo la procedura è più complessa; il dolore invece sembra mantenersi costante. Per includere il figlio nel canone dei santi, i coniugi Acutis si sono mossi in due direzioni precise. La prima, in cui mi pare si sia spesa soprattutto la madre, richiedeva che la vita di Carlo fosse raccontata come la storia di un santo contemporaneo. Il che poneva diverse difficoltà: come vive un santo contemporaneo, che non ha fatto nemmeno in tempo a terminare l'adolescenza? Bisognava ingegnarsi, e non si può negare lo zelo. Carlo aveva per esempio messo in line una bella ricerca su un argomento abbastanza curioso per la sua età – i miracoli eucaristici, ovvero quelli che dal Medioevo coinvolgono le ostie consacrate (nella maggior parte dei casi sanguinano un po', a Bolsena come in Venezuela). La ricerca, probabilmente abbellita e arricchita a posteriori, è diventata una "mostra itinerante", ovvero è stata stampata ed esposta in tante chiese del mondo. Anche il diario di Carlo è stato sviscerato, alla ricerca di pensieri profondi: uno in particolare è piaciuto molto ed è stato ripreso praticamente da chiunque abbia in seguito tenuto un discorso su Carlo Acutis, pontefici inclusi. Dice più o meno così: “Tutti nascono originali ma molti muoiono come fotocopie”, e per quanto ormai gli sia stato attribuito, è probabilmente una frase che Carlo aveva letto altrove – anche se potrebbe essere stata sua l'idea di trasformare "copies" in "fotocopie", che senz'altro ha reso la massima più giovanile (e tra qualche anno sarà invecchiata peggio dell'originale: già adesso chi le fa più, le fotocopie). Anche così, è una frase simpatica ma che ha la profondità di certi meme in cui sono tutti normaloni tranne te – però accidenti, aveva quindici anni, perché non avrebbe dovuto esprimersi coi meme? Vogliamo andare a vedere cosa scrivevamo noi a quindici anni? Probabilmente cose più stupide, eppure senza quelle cose stupide ce l'avremmo fatta ad arrivare fin qui? Senza esserci creduti così straordinari, così diversi dagli altri, ce l'avremmo fatta a reggere tutti i colpi che ci sono arrivati dopo? Io, per dire, se mi guardo indietro vedo solo un coglioncello straordinariamente megalomane, eppure devo ammettere che se ho fatto un minimo di cose nella vita è stato proprio a causa di quel credermi chissachì, a dispetto dalle evidenze. È anche vero che io non ero Carlo, anzi San Carlo, comunque alla fine è solo di me che potrei parlare.

L'altra direzione, per la quale erano fondamentali i capitali del padre bancario, è la creazione di una Fondazione che finanzia progetti di assistenza al Cairo, in Camerun, in Brasile, e presso l'Ospedale di Torino. Tanta beneficienza può realmente accorciare i tempi di un processo di canonizzazione perché, come spiega per esempio Roberto Paura su Lucy, il punto critico di questi processi sono, oggi più che mai, i miracoli. Per proclamare un santo ne serve almeno un paio; il problema è che con i progressi della scienza è sempre più difficile constatarli. Oggi più che mai l'osservazione di un miracolo è diventata un paradosso: deve trattarsi di una guarigione inspiegabile secondo la scienza, salvo che la scienza non funziona così; di fronte a un fenomeno inspiegabile non si mette a gridare "miracolo!", ma comincia a modificare i propri paradigmi per trovare una spiegazione. 

Se la ricerca scientifica ha ristretto i margini entro i quali si possa constatare un miracolo, la crescita demografica li ha in parte riallargati, perché se siamo otto miliardi prima o poi qualche guarigione inspiegabile può statisticamente avvenire: si tratta semplicemente di registrarla con tempestività, prima che qualche medico si metta a studiarla meglio per farci un paper che rovinerebbe l'incanto – e poi c'è questo passaggio, che qualcuno troverà discutibile e scabroso, in cui sul miracolo va messa la bandierina. Ovvero, il paziente miracolosamente guarito deve raccontare ai sacerdoti che prima di guarire ha invocato il tal Beato, il tale Testimone della Fede. Nel caso di Carlo Acutis, per esempio, un bambino brasiliano un giorno l'avrebbe invocato, ottenendone immediatamente la guarigione da una malformazione congenita al pancreas. La cosa più curiosa non è tanto che un pancreas guarisca all'improvviso: sono casi rari, ma su otto miliardi di pancreas può succedere. Ma perché il bambino invocò proprio il ragazzo italiano Carlo Acutis? Come faceva a conoscerlo? E la signora costaricana che andò a pregare sulla sua tomba dopo che la figlia era caduta dalla bicicletta a Firenze e si trovava in un coma apparentemente irreversibile? Perché, con tanti santuari a disposizione, decise di andare proprio sulla tomba di un ragazzo ancora non canonizzato?

Se per definizione i miracoli sono eventi rarissimi, può darsi che noi siamo vittima del bias del sopravvissuto. Facciamo caso all'unico pancreas guarito, non a tutti i pancreas che sono rimasti malformati. Alla ragazza che si è svegliata da un coma irreversibile, non a quelle che non ce l'hanno fatta. Ma il fatto che la memoria dello stesso ragazzo sia stata evocata prima di due guarigioni inspiegabili resta comunque una coincidenza interessante, che in parte può essere spiegata dagli sforzi della Fondazione Carlo Acutis per diffondere il nome del ragazzo. E voi, proprio voi che leggendo ora sbuffate, possiate non trovarvi mai nella situazione di provarci con tutti i santi del calendario e fuori, che di solito è una cosa che si fa quando si esauriscono le medicine e le altre opzioni. E se poi vostro figlio si salvasse, e qualcuno venisse a chiedervi non del denaro, nemmeno un grazie, ma soltanto un'informazione: non è per caso mentre pregavi hai invocato anche il tal ragazzo in corso di beatificazione? Voi che gli rispondereste: no, mi dispiace, per salvarlo ho tirato giù dagli altari Cristo, la madonna e tutti i santi da Abacuc a Zosimo, ma lui no? Vostro figlio si è salvato, il loro figlio non ce l'ha fatta: non gli volete negare un'umanissima consolazione? Poche ore prima avreste dato l'anima al diavolo, ora vi chiedono soltanto di mandare in cielo un ragazzino, e voi fate i difficili? Certo, è una cosa irrazionale, e forse è persino ingiusta, che chi è ricco possa lobbizzare pure per i posti in paradiso, ma volete sapere cosa è ingiusto davvero? La vita, tutta la vita è ingiusta, questo maledetto nascere originali, tutti con un destino diverso, nessuno uguale davanti a nessuna giustizia – tranne quella imperfetta ed eroica che prova a simulare l'uomo. Chi nasce ricco, chi povero, chi scemo, chi malato, è terribile questa cosa che non possiamo rimproverare a nessuno. Carlo nacque in un certo modo, e chissà cosa sarebbe poi diventato: forse un sacerdote, forse un ingegnere, forse una fotocopia come tanti, come voi e come me. Ma è morto all'improvviso: questa è stata l'unica sua originalità, questa è l'ingiustizia disumana. A quel punto l'unica cosa che poteva più fare era il santo; l'unico aiuto che potevano dargli i genitori era raccomandarlo per un posto in cielo: e i mezzi li avevano, non avrebbero dovuto? Non avreste fatto qualcosa del genere? È una pratica che si fa dai primi secoli, davvero, tutte le famiglie nobili hanno messo qualcuno in prima fila: molto spesso un ragazzo che non aveva fatto in tempo a realizzare qualcosa – o a diventare uno stronzo. È una cosa che vi può dare fastidio, lo capisco, ma col vostro fastidio non si finanziano gli ospedali in Brasile, per cui fatevene una ragione, e San Carlo Acutis preghi per voi. 


12 ottobre: Santa Vergine del Pilar, patrona dei popoli ispanici

Il giorno che scoprirono l'America, le ciurme di Cristoforo Colombo stavano festeggiando la Vergine del Pilar, prima Madonna di Spagna? Non ne siamo sicuri, ma non ci scommetterei. Tra i vari motivi, il santuario della Vergine del pilastro è a Saragozza, in Aragona; mentre i marinai di Colombo erano per lo più castigliani e un po' di frizione c'è persino oggi, figurarsi a fine quindicesimo secolo quando aragonesi e castigliani erano popoli diversi, con lingue diverse (non che adesso) e due sovrani che sì, si erano sposati, ma non avevano ancora unificato i loro territori. Non solo, ma sappiamo che il culto per la vergine del Pilar riprese vigore appunto quando la Spagna cominciò ad assumere una dimensione unitaria, sotto il regno di Filippo II, nella seconda metà del Cinquecento. Vero che il santuario esisteva anche prima della sua incarnazione barocca; e che probabilmente ne esisteva uno anche prima della dominazione araba, forse già nell'ottavo secolo. La leggenda addirittura pretende che quella del Pilar sia la prima apparizione della Madonna in assoluto, così precoce che Maria di Nazareth non era nemmeno morta quando apparve a San Giacomo maggiore per confortarlo sulla sua missione apostolica nelle terre iberiche, fino a quel momento abbastanza infruttuosa. Maria gli avrebbe chiesto di far costruire in quel luogo un santuario a Lei dedicato, esattamente intorno al pilastro di alabastro su cui era apparsa. Millenovecentottant'anni dopo il pilastro è ancora lì, anche se quasi completamente ricoperto di bronzo e oro. La vera popolarità della Vergine però arriva soltanto dopo il 1640, con un miracolo spettacolare; a un questuante, Miguel Juan Pellicer, ricresce una gamba amputata (ecco, questo è il tipo di miracoli che negli ultimi secoli non si riesce più a osservare). Nel Novecento la Vergine è diventata la patrona dei popoli ispanici, su entrambe le sponde dell'oceano attraversato da Colombo.


giovedì 9 ottobre 2025

La rimozione del pederasta


Non fosse diventata la data ingestibile che è diventata, mi sarebbe piaciuto il sette ottobre tornare sulla memoria dei Santi Sergio e Bacco, quelli che secondo John Boswell, oltre a essere cristiani (il che mal si adattava al loro mestiere di militari sotto Diocleziano), erano anche sposati tra loro. Per dimostrare questa cosa Boswell doveva commettere diverse forzature – il che non esclude del tutto che abbia potuto intravedere una forma di matrimonio omosessuale tollerata dalla società imperiale del terzo secolo. Ma siccome, anche quando parliamo di Storia, parliamo soprattutto di noi, il fatto che questa forma di matrimonio omosessuale sia esistita davvero è in fondo meno rilevante della necessità che provava Boswell di recuperarla, di identificarla: perché ci teneva così tanto? Voleva evidentemente dimostrare che la comunità LGBT è sempre esistita nel corso dei secoli – anche se ritrovarne le tracce richiede agli storici una straordinaria attenzione al dettaglio nascosto. Ok, e però ultimamente mi è venuta un'altra idea, che forse è una sciocchezza. Mi è venuta dando un'occhiata a queste fiction in costume che, oltre a una ricostruzione fantastica ma molto dettagliata di uno specifico periodo storico, sfoggiano una larga quota di attori appartenenti a minoranze che in quel periodo e in quell'ambiente, a rigore, non dovrebbero starci. Il che non avrebbe molto senso, se agli spettatori interessasse davvero la verosimiglianza, senonché queste fiction un sacco di gente le guarda: e questo basta a spiegare il perché vengano prodotte. Perché la gente vuole vedere attrici afroamericane conciate da damigelle vittoriane? Beh, in linea di massima perché sono belle da vedere; aggiungono spezie alla pietanza, e probabilmente la loro presenza rende queste fiction più gradite al pubblico africano e afroamericano, che finalmente può guardarsi un romance senza notare costantemente che tutti sono bianchi. Questo non significa che gli autori e gli spettatori ignorino l'anacronismo; ma se hanno voglia di specchiarsi in un'attrice in crinoline, perché una fiction non dovrebbe servirgliela? Ecco, il sospetto è che con Sergio e Bacco, Boswell abbia tentato un'operazione simile. Era uno storico e un omosessuale, e venti secoli di Storia senza neanche una coppia gay dichiarata non gli andavano giù. Sapeva che tutto sommato era impossibile dimostrare che due legionari omosessuali del III secolo fossero una coppia ufficiale: però avrebbe voluto vederli, nonché intuiva che un certo pubblico li avrebbe apprezzati. Si potrebbe obiettare che la Storia non è una fiction; giusto; ma parliamo di quel settore della storiografia che è sempre stato il più malleabile, l'agiografia: sin dall'inizio composto da leggende che dovevano adattarsi ai costumi e alla morale di chi le raccontava. Boswell non ha fatto che aggiungere la sua leggenda al corpus che ci passiamo di generazione in generazione: non sarà magari Storia nel più rigoroso senso del termine, ma è comunque materiale che agli storici serve e servirà. Non dirà nulla di utile sull'omosessualità nell'esercito dioclezianeo, ma qualcosa di interessante la dirà su di noi che ne stiamo discutendo.


A farmi tornare su Sergio e Bacco è un altro dettaglio, che rileggendolo mi ha fatto sobbalzare. Sappiamo che nell'antichità i due soldati venivano raffigurati come una coppia anagraficamente asimmetrica: Sergio un adulto, Bacco un ragazzo. Questa iconografia, che forse nasce nel momento in cui un cameo che ritraeva Onorio e sua moglie viene scambiata per un'immagine dei due santi, non si discosta da quella tipica di tante altre coppie di martiri: anche Faustino è un po' più grande di Giovita (che spesso ha capelli lunghi e talvolta viene scambiato per una ragazza). Anche Crispino e Crispiniano, non sono soldati ma ciabattini, sin dal nome ci autorizzano a pensare che uno sia il padre e l'altro il figlio (o il servo). Insomma per gli artisti tardoantichi era normale immaginare una coppia di santi anagraficamente asimmetrica: un adulto e un giovane. Questa cosa, invece, oggi non funziona: la famosa icona di Sergio e Bacco dipinta da Robert Lentz per il gay pride di Chicago del 1994 li ritrae come due adulti della stessa età. Questo dettaglio mi ha fatto sobbalzare perché mi ha fatto venire in mente un film di due anni fa, Stranizza d'amuri di Giuseppe Fiorello. È un film che mette coraggiosamente in scena una relazione omosessuale sbocciata in un contesto molto difficile – la provincia siciliana degli anni '80 – e che termina con un fatto di cronaca: il delitto di Giarre. Tanto più terribile quanto rimane insoluto: quei due ragazzi non si sa chi li abbia ammazzati, e in un certo senso non importa: a desiderarli morti era l'intero contesto in cui erano stati scoperti. Il film funziona: considerato il retroterra televisivo di Fiorello poteva essere molto peggio, ma temo che uno dei motivi per cui è stato variamente apprezzato e finirà senz'altro tra i film a tematica LGBT consigliati dai manuali scolastici, è la più grave infedeltà nei confronti del fatto di cronaca: i protagonisti del film sono infatti due ragazzi più o meno della stessa età. Ma le due vittime del delitto di Giarre, che portano gli stessi nomi, erano una coppia molto meno simmetrica: Giorgio Agatino Giammona aveva 25 anni (ed era già stato "denunciato" dieci anni prima sempre per omosessualità). Antonio Galatola ne aveva solo 15. Non è difficile capire perché Fiorello abbia preferito cambiare la storia, e però se ci pensate il paradosso è notevole. Dopo il delitto, Giammona e Gamatola vennero riconosciuti da una fetta importante dell'opinione pubblica come vittima di un pregiudizio. La parola "omofobia" forse non esisteva ancora e sicuramente non era molto adoperata, ma il concetto era ben chiaro e già censurato; tuttora l'Arci Gay ricorda il loro martirio come un atto fondativo. 

Ecco, allora mi domando: a quasi mezzo secolo di distanza, se scovassimo un ragazzo di 25 anni in atteggiamenti intimi con un minore di 15, come reagiremmo? Li considereremmo due amanti sventurati nel pieno esercizio dei loro sacrosanti desideri, o individueremmo nella situazione un molestatore (adulto) e un molestato (minore)? E in questo secondo caso, quanto sarebbe diversa la nostra reazione da quella dei compaesani di Giammona, che lo ritenevano colpevole di avere sedotto un ragazzino? Peraltro credo che la questione si porrebbe anche nel caso di una coppia eterosessuale: per quanto a 15 anni si sia già entrati nell'età del consenso, ho la sensazione che i rapporti asimmetrici siano sempre meno tollerati dall'opinione pubblica: nei film ormai sono scomparsi; gli stessi anziani attori che tendono a cambiare le compagne ogni tot anni sempre più esecrati. Quest'ultima evoluzione è la conseguenza di una inesorabile de-patriarchizzazione della società: i rapporti tra uomini e donne sono sempre più paritari, e forse anche i gay sentono la necessità di uniformarsi al modello standard. Una necessità che a un certo punto riscrive la Storia: non solo quella antica (Sergio e Bacco), che comunque era già leggendaria, ma anche quella recente (Giammona e Galatola) che pure richiederebbe un maggiore rispetto per i documenti, per la verità insomma. Perché è così importante che i due innamorati-vittime abbiano la stessa età, a dispetto dei fatti? Perché bisogna escludere categoricamente, bisogna evitare che qualsiasi spettatore possa anche solo farsi venire il sospetto che uno dei due abbia sedotto l'altro. Non importa quanto questo possa essere avvenuto innumerevoli volte nella storia dell'uomo, e magari persino nella storia effettiva delle due vittime di Giarre: questa idea dev'essere completamente censurata e respinta; il desiderio reciproco deve essere gemmato spontaneamente in entrambi, magari non nello stesso momento ma in una situazione da subito consensuale. Deve essere andata così, perché se non fosse andata così, qualcuno potrebbe immaginare che Galatola sia stato in un qualche modo manipolato dal compagno più grande; che abbia ceduto a pressioni indebite; che in un luogo di un grande amore si sia trattato di una forma di violenza, magari psicologica prima ancora che fisica; ma oggi ci interessano anche quelle. 

In controluce mi piace vedere il dibattito tra due grandi scuole che avrebbero, sulla sessualità, idee inconciliabili: per i LGBT boswelliani, gli omosessuali sono una specie di razza a parte, che pur dovendo nascondersi è sempre esistita e ha sempre avuto le stesse esigenze: affetto reciproco su un piano abbastanza paritario, e riconoscimento sociale. Per i kinseyani, l'omosessualità è una tra le tante pratiche sessuali che a uomini e donne capita di praticare, il più delle volte clandestinamente, a volte in assenza di altre opzioni che troverebbero più interessanti, per cui l'incredibile percentuale di americani che confessava a Kinsey a fine anni '40 di avere avuto esperienze omosessuali (37%!) si poteva spiegare con la leva militare: ovvero, essendo ognuno di noi più fluido di quanto vuole ammettere, in mancanza di partner dell'altro sesso potremmo essere portati a fare, di necessità, omosessualità. A volte senza neanche desiderarlo, ma per venire incontro alle esigenze pressanti di qualche compagno di branda. È un tipo di esperienza che con l'esaurirsi degli eserciti di leva e dei collegi è sostanzialmente sparita dal nostro orizzonte, contribuendo a fortificare l'idea che gli omosessuali siano una tribù ermeticamente separata. Questo ci porterebbe poi a fraintendere una gran parte dell'omofobia contemporanea, che è ancora ispirata a una figura che stiamo tendendo di rimuovere: il pederasta. E sì che la letteratura, anche solo di qualche decennio fa, ce ne forniva esempi generosi: ma preferiamo non farci troppo caso (vedi il modo in cui il culto di Pasolini è resistito a tutte le campagne stile #metoo che pure mettevano nell'obiettivo personaggi dalla sessualità molto meno manifestamente predatoria). 

Il pederasta è l'omosessuale adulto che corteggia i ragazzini. Oggi di solito lo confondiamo con il pedofilo (che molesta minori sotto l'età del consenso), figura sulla quale concentriamo il massimo dell'esecrazione possibile; per cui non è infrequente sentire accuse di pedofilia rivolte a persone che hanno avuto rapporti con giovanetti/e nell'età del consenso. Il concetto di pederastia non si concilia molto con la nostra concezione, ormai tribale, dell'omosessualità. Paradossalmente, molti omofobi tradiscono una concezione assai più fluida: se temono il pederasta è perché sono i primi a sospettare che una certa percentuale di omosessualità alligni in ciascuno di noi, e aspetti esattamente un intervento esterno per venire alla luce. Il che, secondo loro, avrebbe conseguenze sociali tragiche: se tutti quelli che custodiscono nei propri lombi una discreta percentuale di omosessualità scoprissero di averla... crollerebbero le nascite (che sono già crollate), fine della civiltà, invasioni barbariche, apocalisse. Ok, ma molto più delle conclusioni, è interessante la premessa. Un pederasta non è che 'violenta': di solito 'seduce': questo lo rende molto più pericoloso, in quanto vettore di quella malattia sociale che per l'omofobo è l'omosessualità. Molti omofobi la pensano così. Ma noi che invece omofobi non siamo, i pederasti abbiamo smesso di riconoscerli. Non vorremmo che esistessero. O li scambiamo, appunto, coi pedofili, o li ridipingiamo sui quadri perché abbiano esattamente la stessa età dei loro fidanzatini. E se facciamo un film, gli leviamo dieci anni di età. [È già molto lungo e non ho ancora iniziato a parlare di Guadagnino, per cui forse continua].

mercoledì 8 ottobre 2025

Del non capire Francesca Albanese


Dai e dai, ce l'hanno fatta anche stavolta. Su un mare di gente, sono riusciti a distinguere uno striscione che galleggiava diffondendo un messaggio molto discutibile. A quel punto bastava mostrare soltanto quello striscione, spiegare che il mare avrebbe dovuto dissociarsi, e non c'era più bisogno di spiegare perché loro avevano fatto stare bene a stare in casa all'asciutto. 

(Certo, sarebbe stato meglio trovare qualche scena di guerriglia urbana, ma non se n'è visto un granché, anzi i casseur venivano isolati, quindi pazienza dai, meglio uno striscione che niente).

Lo slittamento, nell'ultimo anno, è stato così lento da apparire impercettibile, eppure c'è stato: ormai nessuno prova più a difendere Israele (e chi lo fa deve ricorrere a mezzi brutali, come Pacifici e i suoi amici). La maggior parte degli ex-difensori-di-Israele-a-ogni-costo non stanno più veramente difendendo Israele, quanto piuttosto sé stessi. Il mondo accusa Israele di genocidio, ebbene loro hanno qualche remora sull'utilizzo del termine. L'Italia sciopera e protesta con un'intensità che non si vedeva da decenni, e loro fanno presente che certi striscioni proprio no, non vanno bene; e anche Francesca Albanese dovrebbe comportarsi meglio. Ma anche nei suoi confronti, non riescono più a dire che è un agente di Hamas coi conti offshore (anche perché l'Albanese, si è scoperto, ha buoni avvocati). A un certo punto è diventata una questione di faccette, di vocina, di toni. I contenuti continuano a essere del tutto sconosciuti: la maggior parte dei criticanti non ha mai letto un suo report, non hanno nemmeno idea che lei ne abbia scritti. L'hanno identificata come il leader di un movimento che credono nato all'improvviso, e non capiscono perché lei da leader non si stia comportando: la vorrebbero in televisione a farsi bersagliare dai pupazzetti, e lei magari se la invitano ci va pure, ma non è il suo ruolo e si stanca subito, ha meglio da fare. Questo è molto frustrante.

Per i polemisti di destra, comunque, il copione è già scritto. Non ha nessuna importanza cosa dica o faccia: è una donna, quindi basta recuperare il canovaccio già adoperato con Boldrini, Bindi, Schlein, e tante altre. Un po' più complicata è la situazione per il centro cosiddetto liberale e filoisraeliano, ma qui apriamo una parentesi: ha davvero senso parlarne? Di chi scrive sul Foglio o Linkiesta, voglio dire, insomma, esistono ancora? A parte Guia Soncini, gli altri li legge davvero qualcuno? Non è che semplicemente sopravvivono (con fondi pubblici) come bersagli retorici, per far sembrare tutti gli altri un po' più svegli? Non lo so, magari nelle grandi città ci sono ancora fansclub, qualche socio ogni tanto mi si palesa sui social, non sono mai sicuro che non si tratti di un bot. Io sto in provincia e non riesco davvero più a immaginare quale abisso di alienazione possa condurre persone alfabetizzate a fidarsi di un Ferrara o di un Christian Rocca – ma fingiamo una volta in più che le loro opinioni abbiano una qualche rilevanza. Ecco, questi l'Albanese non sanno come prenderla. Non l'hanno capita all'inizio e non possono più capirla adesso – ciò equivarrebbe ad ammettere, appunto, che non hanno capito nulla fin qui, un suicidio professionale: gli opinionisti non possono rimangiarsi le loro opinioni, devono calare a picco con esse. In questi casi un disegno vale più di mille parole, il che ci permette di estrarre un significato interessante persino dalla vignettina del povero Bozzo: l'Albanese gli ricorda Olivia di Braccio di Ferro. Tutto qui, nessun accenno alle sue idee, al suo ruolo istituzionale, al modo in cui l'ha svolto, alle polemiche a cui ha partecipato, alle accuse gravissime che le sono state rivolte, alla persecuzione di cui è vittima: tutte cose che Bozzo magari ignora, probabilmente la considera un personaggio televisivo alla stregua di tanti, da liquidare con una caricatura.

Mesi fa, quando non era ancora al centro di un'attenzione ossessiva, fu Francesco Cundari, a proporre una formulazione che nell'ambiente piacque molto. Suggerì, Cundari, dall'alto del suo essere Cundari, che Francesca Albanese stava alla causa palestinese come Alessandro Orsini sta alla questione russo-ucraina. Ovvero.

Ovvero Cundari non sembrava in grado di distinguere un animaletto da talk italiano da un'esperta di diritto internazionale con un incarico alle Nazioni Unite. A volte mi domando se non siano, Cundari e compagnia, le vere vittime del grillismo. Se lo sono trovati davanti nei momento in cui dovevano diventare adulti, sviluppare un senso critico, emanciparsi dai maestri... e semplicemente si sono messi dietro una siepe davanti alla prima pagina del Fatto Quotidiano, scambiando i fondi di Travaglio per l'impero del Male. Il grillismo nel frattempo è sfumato, come qualsiasi altro fenomeno col tempo. Siamo tutti cresciuti, persino Di Battista è un po' cresciuto, ma loro sono restati lì, dietro la siepe, a impallinare obiettivi immaginari. Tanti anni fa qualcuno non solo decise che erano i primi della classe, ma li convinse di questa cosa: e nessun test invalsi è intervenuto a correggere questa autopercezione. Ora non importa quante pensose previsioni si siano rivelate errate, quanti granchi siano stati pescati, quanti riveriti maitre à penser si siano palesati per tromboni costipati; lo spettacolo deve andare avanti, e lo spettacolo si basa sull'assunto che i più intelligenti siano ancora loro. E veniamo a Guia Soncini, che intelligente lo sarebbe davvero – quel tanto che le basta per aver capito, da anni, che meno si sbilancia su Israele/Palestina, meglio è. Quando poi tutti ne parlano, quando non può proprio esimersi, la Soncini padroneggia diverse tattiche. Può mandare la palla in tribuna (Ci vuole labombatomica! Lo dicono tutti!) Può commentare la stessa clip di youtube che stanno commentando tutti (il siparietto tra l'Albanese e il sindaco di Reggio Emilia), dimostrando senza farci troppo caso di averla capita meglio di tutti: che io sappia è l'unica ad aver notato che l'Albanese è intervenuta non per criticare il sindaco, ma per difenderlo da un pubblico che lo fischiava. Può notare un dettaglio che magari non è neanche vero, ma è interessante (la "vocetta da Paperina"). Potrebbe forse descriverlo in maniera meno greve ("La vocetta da bisognosa della guida maschile è il modo in cui la donna al comando si accerta che a suo marito non caschi il cazzo"), ma forse è il suo modo di non spaventarci, di non sembrarci troppo intelligente: c'è chi fa la vocetta, c'è chi scrive le parolacce, ok. Persino la Soncini non riesce, comunque a vedere cos'è successo in questi giorni. Per la prima volta dopo anni i sindacati hanno manifestato coi cattolici, con i musulmani e con gli studenti: un blocco sociale sensibilmente diverso dai soliti, che ha mandato un po' in confusione il governo e che ha modificato irreparabilmente il quadro in cui viene descritta in Italia la questione di Gaza. E però la Soncini aveva un canovaccio troppo comodo per rinunciarvi – la gita in barca dei bianchi privilegiati esibizionisti che si illudono di salvare il mondo – e lo ha usato. Avrà finto di non vedere che la Flotilla è partita da Tunisi, aveva un nome arabo e radunava volontari da tutto il bacino del Mediterraneo – la barchetta che per poche migliaia di metri non è riuscita a spiaggiarsi sulla Striscia era turca.   

Almeno una volta ho lasciato scritto che assistere più o meno passivamente a tutti questi disastri mi fa sentire come il personaggio di John Hurt nei Cancelli del cielo. Questo è vero un po' per tutta la mia classe, e in particolare in questi giorni mi sembra vero per la Soncini, la più brava di tutti noi a raccontarcela. A chi se non a lei avremmo fatto leggere un discorso nella cerimonia del diploma – un discorso, ovviamente, bislacco e divagante che avrebbe preso in giro tutti, dopodiché i maschi se ne sarebbero andati a menarsi in girotondo.

Ovviamente quando la Confcoltivatori del Wyoming decide di sterminare i peones lui non è così d'accordo, ma nemmeno si preoccupa troppo del problema: dopodiché continua a fare battute del cazzo finché non si ritrova al centro esatto di un girotondo all'ultimo sangue, dalla parte sbagliata della barricata, anche se non gli viene nemmeno in mente di sparare. L'ultima cosa che dice è: l'anno scorso ero a Parigi, oh quanto amo Parigi (la penultima è: madò, quanti sono, mica potete farli fuori tutti).

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