Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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domenica 7 dicembre 2025

Tutti uguali davanti alla legge – ma davanti a Delrio?


Egregio onorevole Delrio,

credo che lei meriti almeno un po' di franchezza: chi le scrive questa lettera non la stima come politico, e soprattutto come legislatore. Anzi credo veramente che da questo punto di vista lei sia un disastro. A distanza ormai di dieci anni, se ogni tanto mi capita di pensare a un decreto approvato da un parlamento (e ahimè, sottoscritto dal Presidente della Repubblica) che contenga non soltanto caratteri di palese anticostituzionalità, ma un vero e proprio affronto al senso comune, a quella minima definizione di democrazia che impariamo tutti sui banchi di scuola quando sono ancora banchi molto piccoli, questa idea che i cittadini siano tutti uguali davanti alle legge, ecco: quando penso a una legge che nega questi minimi principi... mi viene sempre in mente il cosiddetto decreto Delrio, la legge 56 del 7/4/2014, e in particolare quell'asciuttissimo comma 19: "Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo". Così, con uno sbrigativo colpo di penna, lei aveva tolto a milioni di italiani il diritto di essere rappresentati dal loro sindaco "di aria vasta", per il semplice e allucinante motivo che non sono cittadini del comune capoluogo, ma di altri comuni che a lei evidentemente non interessavano: a lei e ai suoi colleghi che la appoggiarono in quella iniziativa riformatrice clamorosamente anticostituzionale, che la maggioranza dei cittadini bocciò sonoramente appena ebbe la possibilità di farlo: così che di tutto quel grande disegno restano soltanto, qua e là, certi decreti orribili, purtroppo ancora in vigore, quasi a ricordarci di quanto sia fragile la democrazia se lasciamo responsabilità legislative alle persone non adatte. 

Ecco: a dieci anni di distanza, onorevole, io devo confermare quell'impressione; magari è soltanto una coincidenza, ma nel momento in cui si è trattato di nuovo scrivere una proposta di legge orribile, che che sfida il buon senso e la Costituzione – una proposta di legge che immagino nessuno dei suoi colleghi avesse troppa voglia di associare al proprio cognome e alla propria immagine pubblica – eccola di nuovo sul luogo del delitto, eccola di nuovo pronto a sobbarcarsi l'ennesima sfida a quell'articolo 3 della Costituzione che a questo punto forse davvero a lei non piace; sì, a volte è anche una questione di gusti. Glielo recito: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". E a questo punto glielo chiedo – e chiedo a lei la medesima franchezza, per favore: cosa c'è davvero che non sopporta in questo articolo? Perché non perde l'occasione per ignorarlo, per sfidarlo, per offenderlo?

Ho letto in giro che la sua bozza anti-antisemitismo va inquadrata soprattutto in un più generale conflitto di correnti all'interno del partito in cui non ha rinunciato a militare, il PD: e in effetti la ricordo, pochi mesi fa, piuttosto insoddisfatto della direzione imposta dalla segretaria Elly Schlein: segretaria eletta in regolari primarie, i cui risultati promettenti da un punto di vista elettorale sono davanti agli occhi di tutti. Ma lasciamo stare per un attimo la guerra di bande, la tendenza quasi automatica dei centristi di quel partito a sabotarlo quando non riescono a controllarlo. Ci sono tanti modi per opporsi a un progetto politico che non si condivide: tanti modi che non prevedano di legare il proprio nome a un'altra legge orribile e incostituzionale, che assume come punto di partenza un documento ridicolo (la definizione IHRA sull'antisemitismo), da anni irriso da chiunque affronti seriamente la questione in ambito accademico e legislativo. Ma le voglio chiedere, onorevole: avrebbe davvero bisogno di consulenze accademiche, e del parere di persone che l'antisemitismo lo conoscono davvero non per interposta persona, per comprendere le gravi contraddizioni logiche di quella paginetta, un documento che magari all'inizio era stato stilato in buona fede, ma poi è stato visibilmente distorto, e le tracce di quella distorsione appaiono evidenti (si comincia parlando di ebrei, e si finisce proibendo tout court le critiche allo Stato di Israele)? Non si diventa legislatori per diritto di nascita o divino; lei qualche studio deve averlo pur fatto, un minimo di analisi del testo dovrebbe rientrare nelle sue competenze: come può aver letto quella definizione e averla presa per buona? E se davvero l'ha fatto, come può in coscienza ritenersi in grado di promuovere iniziative legislative? Davvero dobbiamo presumere che lei sia troppo ingenuo per rendersi conto della trappola in cui è caduto?

Egregio onorevole, tenterò di spiegarle perché la definizione IHRA è un testo sciocco che nessun adulto dovrebbe prendere come punto di riferimento per iniziative legislative. Farò appello, per l'occasione, persino alla sua fede cattolica, perché anche da questo punto di vista c'è qualcosa che non va; insomma, lei è d'accordo con l'antica idea che le persone debbano essere giudicate – se proprio le vogliamo giudicare –  per le loro azioni? Non per la loro religione, non per la loro "razza", non per condizioni sociali o idee le quali, se restassero semplicemente "idee", non farebbero male a nessuno? Ci crede a questa cosa che è uno dei punti di partenza della nostra cultura millenaria? 

Perché chi ha pervertito la definizione dell'IHRA non ci crede, e l'ha scritto nero su bianco in frasi molto semplici. Qualcuno in quella stanza era convinto dell'esistenza di singole persone e di uno Stato che non possono essere giudicati per le proprie azioni – gli altri sì, quelle persone e quello Stato, no. Si è ben guardato di definire meglio questo carattere di eccezionalità (perché quello Stato sì e gli altri no?), ma è chiarissimo che questa eccezionalità esiste nella Definizione, ed è quello che vuole ottenere chi promuove la Definizione. Pensi solo a questo comma, davvero molto semplice: per la definizione è antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Lei lo legge e approva, ma certo, cosa c'è di più antisemitico di chiamare nazisti gli israeliani. Forse che io ho intenzione di paragonare Netanyahu a un nazista? No, onorevole, io non paragono Netanyahu a un nazista. Non ne ho bisogno, il nazismo è la risorsa dei polemisti senza fantasia. Ho così tante parole e argomenti per definire Netanyahu, che se le usassi qui ora tutte probabilmente sarebbe lei a implorarmi di dargli del nazista e farla finita. 


Ma sa che le dico? Lasciamo perdere Netanyahu. Lasciamo perdere qualsiasi riferimento alla "politica israeliana contemporanea". Fingiamo che non esista. Fingiamo che Israele sia il Paese più liberale del mondo, un Paese dove sia tutelata ogni scelta religiosa, politica ed esistenziale. Molti lo fanno già; fingiamo anche noi per amore di ipotesi. E immaginiamo che in questa nazione perfetta, faro delle nazioni, a un certo punto qualcuno voglia fondare un partito nazista. Perché no? Se tuteliamo ogni opinione, perché non potrebbe nascere un partito nazista anche tra Tel Aviv e Gerusalemme? Voglio specificare: un partito nazista vero, con le svastiche, le aquile, le SS, tutto il pacchetto. Un partito che se nascesse qui da noi, e le combinasse una sfilata sotto casa, lei stesso non potrebbe che esclamare: ma questi sono nazisti. Si tagliano anche i baffi quadrati, tutto. Ecco. Se succedesse a Reggio nell'Emilia (o a Chicago, Illinois) lei potrebbe esclamare pubblicamente: questi sono nazisti! Se poi andassero al governo, lei potrebbe denunciare: ma al governo ci sono i nazisti! Se poi perseguissero politiche coerenti col proprio programma elettorale (conquiste per acquisire "spazio vitale", minoranze in campi di sterminio), lei, finché riuscirebbe a parlare, confido che continuerebbe a protestare, insomma, ma questo è il nazismo! Ne sono sicuro. 

Se invece lo stesso partito vincesse le elezioni tra Tel Aviv e Gerusalemme, lei dovrebbe mordersi le labbra, perché la definizione IHRA lo considera antisemitismo. Se poi ottenessero una maggioranza alla Knesset, se le morderebbe ancora più forte, ma la definizione IHRA è pur sempre la definizione IHRA. Se infine cominciassero, non so, sempre per amore di ipotesi, ad allargare il proprio spazio vitale con offensive militari, a recintare le minoranze, ad affamarle e a bombardarle, lei dovrebbe continuare a stare zitto, perché chiamarli nazisti secondo la definizione IHRA è Holocaust inversion!, e l'Holocaust inversion è un peccato mortale di pensiero. Ora, lo capisce che qualcosa non va? La Definizione non dice semplicemente che paragonare un tale israeliano a un nazista è antisemita. Dice che sarà da qui in poi antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Si rende conto a quanto era goffo chi ha lasciato nel testo finale quell'aggettivo, "contemporanea"? Perché davvero leggendo quella frase dobbiamo presumere che Israele non possa essere paragonato al nazismo qualsiasi cosa faccia, in qualsiasi momento storico. Chi ha scritto questa cosa stava semplicemente chiedendo una deroga a quel principio di buon senso per cui qualsiasi persona, e qualsiasi Stato, sarà giudicato per le proprie azioni. No, chi ha scritto questa riga della Definizione ci teneva a sancire che lo Stato di Israele non potrà essere paragonato al nazismo, mai. Gli altri sì, Israele no. Lasciamo perdere i motivi storici per cui questo paragone è più fastidioso di altri: qui non si tratta di un semplice fastidio, qui si tratta di stabilire un carattere di eccezionalità. C'è uno Stato che non può essere giudicato con i metri degli altri, uno Stato che non può essere mai paragonato agli altri. Non importa che azioni nel frattempo stia commettendo, e pensa un po' la coincidenza: ultimamente sta commettendo crimini di guerra conclamati. 

Egregio senatore, credo che basterebbe questo esempio a spiegare a una persona in buona fede perché la definizione è irricevibile, e perché nei fatti provochi molto più antisemitismo di quanto ne riesca a combattere. Purtroppo io a questo punto non la do affatto per scontata, la sua buona fede. Cordiali saluti, buon Natale e buon Anno, eccetera.

venerdì 5 dicembre 2025

La stagione del consenso viene e va

Buongiorno, questo pezzo è un segnaposto per avvisarvi che ieri è uscito un mio pezzo per il Manifesto, che più tardi qui pubblicherò, ed è stato a quanto pare ripreso anche da Morning, e che sempre sullo stesso argomento dovrei balbettare due cose a Fahrenheit (Radio 3) oggi verso le 16:30. A presto. 

[L'intervento a Fahrenheit, a 1:30]

C'è stato un momento – all'inizio di questi anni '20 – in cui noi insegnanti all'improvviso ci siamo sentiti di nuovo importanti. Vi ricordate? A causa di un virus molto pericoloso, le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse da qualche settimana, quando intellettuali e politici di ogni schieramento cominciarono a invocare il ritorno della scuola in presenza, fondamentale baluardo di civiltà. Qualcuno arrivò persino a distorcere le statistiche per dimostrare che le scuole aperte non avrebbero aumentato il contagio: o forse un po', ma non così tanto; e comunque ne valeva la pena. I ragazzi avevano bisogno della scuola, molto più di quanto tutti avessimo bisogno della salute. E doveva essere una scuola reale, di cemento, con lavagne in ardesia e gessetti: un simulacro virtuale non avrebbe funzionato. Per quanto ogni cosa ormai si possa fare on line, la scuola no: la scuola doveva prendersi i vostri figli verso le otto e restituirli dopo mezzogiorno. Fu un periodo complicato, ma esaltante, in cui forse molti colleghi si illusero di avere recuperato un minimo di dignità: inoltre, se la scuola era davvero così importante, forse i governi si sarebbero decisi a rifinanziarla. 

Cinque anni dopo, è chiaro che le cose non sono andate così. Ce ne accorgiamo ogni giorno, mentre aderiamo alla spicciolata agli scioperi che i sindacati non riescono a organizzare nella stessa data. Ci hanno calato lo stipendio, anche se non si può dire perché la cifra in busta è un po' aumentata: però il bonus docenti è bloccato da settembre, un trucco contabile che ci fa sospettare che il governo non sappia più dove raccattare risorse. Sui giornali più di tanto non se ne parla; per un mese la notizia più chiacchierata è stata quella di una famiglia che piuttosto di mandarci i figli li lasciava nel bosco, in balia di animali selvaggi e funghi velenosi. Molti liberi pensatori ne hanno apprezzato la scelta; sembrano gli stessi che quattro anni ci intimavano di riaprire subito le scuole, ne andava della salute mentale dei ragazzi. Nel frattempo la Camera ha approvato il decreto che ci proibisce di attivare progetti di educazione sessuale/affettiva senza il consenso dei genitori. C'è una battaglia culturale in atto, e noi siamo un obiettivo, semplicemente perché facciamo il nostro lavoro, o almeno ci proviamo. Scopriamo di essere i nemici dell'istituzione famigliare, che sulla sessualità dei propri figli ha l'ultima parola. Come succede in battaglia, c'è una differenza sostanziale tra la propaganda – aneddoti piccanti di lezioni tenute da drag queen e pornoattori  – e la situazione sul campo: un campo dove i ragazzi l'educazione sessuale se la fanno da soli,  vivendo negli stessi ambienti per cinque ore al giorno; con risultati insoddisfacenti, se gli esperti ci dicono che le malattie sessualmente infettive sono in aumento nella fascia dei più giovani. 

Così se mi domando cosa vuole da me la società, la risposta è la stessa: prendermi i loro figli alle otto e restituirglieli dopo mezzogiorno. Il fatto che per queste quattro o cinque ore si ritrovino assieme, in aule non troppo spaziose, a contatto con coetanei di sessi e culture diversi, è un nodo che devo sbrigliarmi da solo, sapendo che in qualsiasi momento potrei dover fare rapporto ai genitori. Potrò portare i miei studenti al consultorio? Solo se sono d'accordo: e dovrò organizzare un'attività a costo zero per gli studenti che restano a scuola: il decreto mi obbliga a farlo, ma per ora non stanzia un soldo. Se ne staranno su un divanetto a trescare, magari qualcuno qualche cosa la imparerà. Molto spesso i genitori che non firmano l'autorizzazione sono quelli che provengono dai contesti in cui la sessualità degli adolescenti è un tabù. Valditara ha un bel da insistere che il suo decreto non nega a nessuno l'educazione sessuale: nei fatti la sta togliendo proprio alle famiglie che non osano parlarne, ai figli che vivono in famiglie abusanti che quell'autorizzazione non la firmeranno mai; alle ragazze a cui i genitori hanno già combinato un matrimonio (sì, succede, molto più spesso di quanto ne parlino i giornali), ai ragazzi che vivono in un contesto violento e non hanno strumenti per gestire la propria rabbia. Che sia questo che la società mi chiede, senza avere il coraggio di metterlo per iscritto? 

mercoledì 3 dicembre 2025

De reuelatione in hoc ipso tempore, IV



[Questo pezzo è da considerare il seguito del Gesuita nella giungla, che apparve per la prima volta sul Post proprio dieci anni fa. In mezzo in realtà ci sono altre puntate che sono andate perse, anche loro, come pagine di un dossier lasciate alla deriva sul Fiume delle Perle].

Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo...

Il profilo di una giunca contro il sole del tramonto, che tinge d'arancio un'ansa del Fiume delle Perle. La giunca è ormeggiata; da riva si sente qualcuno che grida in lontananza, con l'affanno di chi fugge per salvarsi la vita. Sottocoperta, nella penombra, fra Marcelo riceve un'ambasciata.

Davanti a me stava un ragazzino spaventosamente magro, dai lineamenti selvaggi. Non avesse portato il saio francescano della Piantagione, lo avrei creduto un figlio della giungla, allevato dalle scimmie. Per questo ammetto che mi spaventai a morte quando lo sentii parlare in uno spagnolo quasi credibile, lui che fino a un attimo prima si era spiegato soltanto a gesti.

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

Lo schiavetto era spuntato all'improvviso dalla boscaglia. Come avesse potuto raggiungerci da solo, senza un'imbarcazione, era un mistero che si sarebbe portato con sé. Don Guillermo aveva uomini lungo tutto il fiume? Mi faceva seguire? Cosa voleva da me?

"Come ti chiami?"

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma..."

"Ho capito, ho capito".

"... rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

"Ho capito".

Non mi avrebbe detto altro. Aveva imparato a memoria soltanto quella frase, da recitare nel caso mi avesse trovato, prima di essere mandato a morire nella giungla. Probabilmente Fra Guillermo non si aspettava che tornasse indietro. Chissà quanti ne aveva mandati in tutti i bracci del delta. Ci teneva, a quel flagello maledetto. Io nemmeno sapevo perché lo avevo raccolto. Lo avevo visto pendere da un paravento del santuario della Madonna della Guadalupe – quindici capanne al centro di una piantagione di papaveri, su un'isola del delta. Trecento schiavi, anche se se a fra Guillermo la parola non piaceva.

La Guadalupe era l'avamposto domenicano sul Fiume delle Perle, l'ultima località sulle mappe dei portoghesi, che da lì in poi si sospendevano nel vuoto. Lo gestiva fra Guillermo della Guadalupe medesima, un francescano che sembrava precipitato lì durante un monsone, il suo scopo dichiarato era conquistare quante più anime a Dio. 

Anche Felipe, il mio attendente, era sbiancato.
"Il ragazzo resta con noi. Dagli qualcosa da mangiare, Felipe".
"Non abbiamo più molto, padre".
"Il cuoco è a caccia, no? Troverà qualcosa".
"È da un po' che non torna".
"Va bene adesso scendo un po' sottocoperta Felipe, non disturbarmi".
"È già l'ora delle preghiere?"
"È già l'ora dei fatti tuoi, Felipe".

Forse il flagello l'avevo raccolto per lui. O per me? Molto presto avrei finito la scorta di oppio che avevo con me, e poi sarei stato male, nel bel mezzo del Fiume delle Perle, nella giungla. Avrei avuto nausea e diarrea e se la diarrea non si fosse fermata, sarei morto, disidratato e febbricitante. Sarei morto forse a mille passi dalla dimora di Francesco Xavier, senza sentire la sua voce, la voce che aveva convertito milioni di uomini. 

Il suo dossier era sconcertante. 

3 dicembre: San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

Figlio di nobili navarresi caduti in disgrazia dopo la conquista spagnola, entra alla Sorbona e si laurea nel giro di tre anni. A salvarlo da una carriera di precettore presso qualche signorotto castigliano è quel fottuto veterano basco, Ignazio di Loyola. Più ne sentivo parlare, più lo ammiravo. La maggior parte dei sant'uomini che conoscevo non avrebbero saputo fare nient'altro nella vita, ma Ignazio prima di scegliere la santità era stato un mascalzone. Avrebbe potuto diventare un generale in qualche esercito, ma cercava qualcos'altro. Sé stesso? Va in Terrasanta, ma i francescani lo cacciano perché fiutano l'eretico. L'Inquisizione spagnola in effetti lo tiene in carcere per un mese e mezzo, dopodiché tutte le imputazioni cadono come per miracolo, e in un qualche modo riesce a entrare alla Sorbona. A trentotto anni, madre di Dio. Il più giovane compagno di classe aveva la metà dei suoi anni. Io mi ci iscrissi a diciannove e a momenti ci restavo. Lui completò il corso. Sette anni. E nel frattempo aveva convertito i suoi migliori compagni di collegio, tra cui appunto il nostro amico Francesco X. Il dossier riportava la celebre frase celebre che il vecchio compagno avrebbe detto al giovane: "Che senso ha conquistare il mondo, se si perde la propria anima?" Suona molto bene [e infatti probabilmente è apocrifa] ma a rifletterci non ha molto senso. Francesco era uno studente di legge, o filosofia, più o meno spiantato; senz'altro non un aspirante conquistatore del mondo. O lo era? O Ignazio aveva fiutato la sua preda, o aveva riconosciuto in quel ragazzo la stessa ansia di conquista che lo aveva spinto tanti anni prima, da ragazzino, a farsi soldato?

"Sangue di Cristo, non ne posso più!"

Mentre ci riflettevo dovevo essermi appisolato. Mi svegliarono le bestemmie e i passi nervosi sulla tolda, proprio sopra il mio alloggiamento.
"Io taglio la corda, madre di Dio, non ero entrato nell'Ordine per queste porcherie. Una tigre! Una maledettissima tigre! Io volevo fare il cuoco in un convento, non andare a caccia in una giungla dimenticata di Dio e piena di tigri! 

Portas vultus eius quis aperiet?

Per gyrum dentium eius formido...

Il cuoco era tornato a mani vuote e in stato di choc. Avremmo pranzato a manghi e preghiere, anche oggi. 

Sternutatio eius favillae ignis,

et oculi eius ut palpebrae diluculi...

"Io non scendo più dalla nave, ve lo dico. Mai più. Il diluvio ci vorrebbe qui intorno, è l'inferno questo, Signore Dio! Il diluvio! Che anneghi tutto quanto!"

[Continua, magari nel 2035].

domenica 30 novembre 2025

Il santo sulla X

30 novembre – Sant'Andrea, apostolo e martire (I secolo). 

In effetti è molto più stabile così, cioè non si capisce perché crocefiggerli in altri modi.
Un ingegnere non avrebbe dubbi

La Costantinopoli del IV secolo è una città appena nata e già smisurata, una capitale in cerca di identità. Rifondata nel 330 da Costantino il Grande che l'aveva chiamata "Nuova Roma", non poteva vantare come le altre metropoli il passaggio di apostoli e martiri, tanto che le chiese più importanti finiscono per essere dedicate a concetti personificati e di sesso femminile: la "Santa Pace" (Sant'Irene) e soprattutto la Sapienza di Dio: Santa Sofia. Il sospetto che presso il popolo alligni ancora la devozione per la dea lunare Artemide/Cibele è accreditato dall'importanza che assume subito in città il culto per "la Madre di Dio", che è sì Maria di Nazareth, ma soprattutto la donna dell'Apocalisse che compare su una falce di luna: quella falce di luna che passerà negli stemmi della città e poi sulla bandiera dei turchi, quando Costantinopoli diventerà Istanbul. 

Forse per contrastare tutte queste presenze femminili Costanzo II, figlio e successore di Costantino, decide di portare nella città fondata dal padre i resti di Sant'Andrea, fino a quel momento custoditi a Patrasso, dove si raccontava che il martire fosse stato crocefisso. Perché, di tutti gli apostoli, Costanzo sceglie proprio Andrea? Forse per il nome, che in greco significa "virile", ma più probabilmente perché gli apostoli più importanti sono già stati presi da altre città. Non si può escludere che Costanzo avesse potuto conoscere gli Acta Andreae, un testo che risale al secondo secolo (se non al primo), ma che pochi anni prima Eusebio di Cesarea aveva definitivamente bollato come eretico, assurdo ed empo. L'Andrea degli Acta in effetti è un supereroe che risolve tutti i problemi con miracoli a raffica, alcuni dei quali un po' scabrosi: una matrona rimane incinta illegittimamente? Andrea miracolosamente... la fa abortire: possiamo capire che Eusebio disapprovasse. Negli Acta però Andrea viene fatto passare, nelle sue peregrinazioni tra la Grecia e l'Asia, anche da Bisanzio: l'antico porto sul Bosforo sul quale era stata edificata Costantinopoli. Da qui nascerebbe la tradizione che ritiene l'apostolo il fondatore della diocesi, che fino al 330 era una sede vescovile come tante, ma col trasferimento della corte imperiale sarebbe diventata uno dei cinque patriarcati più importanti. Gli Acta non lo dicevano espressamente – e anche se lo avessero detto, non erano considerati una fonte credibile nemmeno a quei tempi (c'era un'appendice divertentissima il cui titolo dice un po' tutto, Avventure di Andrea e Mattia nel paese dei cannibali), ma in mancanza di meglio, Costanzo portò in città Sant'Andrea. 

C'è da aggiungere che per quanto nei Vangeli sia una figura di secondo piano, Andrea è pur sempre il fratello di Simon Pietro; rivendicare il suo patronato significava quindi rimarcare il rapporto di fratellanza tra la Roma antica, sede della cattedra di Pietro, e la Nuova. Il fatto che Simone (nome ebraico) figlio di Giona (nome ebraico) avesse un fratello chiamato Andrea (nome greco) può lasciare perplessi ma non è del tutto impossibile; greco e aramaico si stavano lentamente amalgamando, dando luogo a composti come Bar-tolomeo.  

Non è nemmeno chiaro se Andrea fosse il minore dei due fratelli; d'altro canto lo stesso Gesù dimostrava di non dare molta importanza ai rapporti di parentela. Andrea poteva inoltre essere definito Protocleto, ovvero "chiamato per primo": sia nel vangelo di Marco sia in quello di Matteo, Andrea è sulla barca con Pietro quando Gesù, passando dal molo, propone a entrambi di seguirlo e diventare "pescatori di uomini". I fratelli obbediscono senza chiedere oltre; sono i primi apostoli a essere nominati. Luca non lo nomina espressamente, forse per concentrarsi sulla figura di Pietro; quanto a Giovanni, in lui leggiamo una storia molto diversa. Il suo Andrea, prima ancora di diventare apostolo di Gesù, era già discepolo di Giovanni Battista; quando quest'ultimo vede passare Gesù e lo saluta come "Agnello di Dio", Andrea e un altro seguace, che Giovanni non nomina, decidono di seguire l'Agnello. In questo caso il compagno di Andrea non può essere il fratello Pietro, che viene informato dal primo solo due versetti più tardi ("Abbiamo trovato il Messia"). Tradizionalmente, quando Giovanni evangelista non nomina un apostolo, si assume che si tratti di lui stesso; è uno dei passi non infrequenti del suo vangelo in cui si fa notare che prima di Pietro c'è un altro apostolo (il "discepolo che Gesù amava"): è lui a conoscere Gesù per primo, è lui ad essere adottato da Maria ai piedi della croce, è lui, dopo l'annuncio della Resurrezione, ad arrivare per primo alla tomba vuota (anche se lascia entrare Pietro per primo). Ma insomma tre vangeli su quattro danno Andrea come protocleto, anche se sempre pari merito con qualcun altro. A ben vedere anche tre vangeli danno Pietro (i sinottici), ma il quarto lo nega espressamente, per cui Andrea sembra il protocleto più credibile. A parte questo, non è che i vangeli ne parlino molto. I tre apostoli più menzionati dai sinottici sono Pietro e i due figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo Maggiore; solo in un'occasione Marco aggiunge ai tre anche il fratello di Pietro, quando in quattro domandano a Gesù delucidazioni sulla profezia della distruzione del Tempio. Giovanni gli fornisce una riga di dialogo nell'episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci ("C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?"); Luca continua a snobbarlo anche negli Atti degli Apostoli, nominandolo soltanto per necessità nel primo capitolo e poi perdendolo di vista completamente. La tradizione orale, dopo la depurazione degli aspetti più fantastici operata da Eusebio, lo voleva missionario in Grecia, Asia Minore e Scizia (Scythia), quel territorio a nord del mar Nero costellato da città di lingua greca, ma che si estendeva fino Novogorod; il che ha consentito sia ai russi sia ai rumeni di reclamarlo come santo patrono delle loro nazioni. Anche se per noi lì oggi c'è soprattutto l'Ucraina, dove i cattolici gli preferiscono San Giosafat Kuncewycz.

Andrea è anche il patrono della Scozia, per motivi non così chiari. La leggenda del monaco San Regolo, che avrebbe trafugato le reliquie da Patrasso prima che esse fossero traslate a Costantinopoli, non sembra molto antica, e tradisce un punto di vista già bassomedievale (per quale motivo una traslazione a Costantinopoli avrebbe dovuto essere evitata in quanto blasfema? Solo dopo il 1054 i cristiani costantinopolitani cominciano a essere considerati scismatici). È insomma quel tipo di leggenda che serve a spiegare un fenomeno che esiste già, a qualcuno che non riesce più a spiegarselo. È pur vero che il vescovo Acca di Hexham aveva portato nel 733 qualche reliquia nella cittadina che proprio da lì in poi avrebbe preso il nome di Saint Andrews, ma c'è un altra ipotesi che non mi sento di escludere: l'errore ortografico. Scythia è così simile a Scotia... La venerazione per il santo avrebbe poi portato gli scozzesi a fregiarsi in suo onore della bandiera con la croce decussata – forse la più antica a essere adottata, tra quelle che sventolano ancora. C'è anche in questo caso una leggenda che la giustifica, purtroppo non molto originale: nell'832 il re dei Pitti, Angus II, muovendo guerra agli Anglosassoni insieme coi suoi alleati Scoti, si sarebbe ritrovato accerchiato. Dopo avere molto pregato per i Pitti e per gli Scoti, sarebbe stato consolato in sogno da Sant'Andrea e avrebbe visto, nel terso cielo del mattino, le nuvole comporre una croce decussata, ovvero a forma di X! Tutto chiaro, in hoc signo vinces, salvo che prima del Mille nessun testo, nessuna icona, associa ad Andrea l'immagine di una croce decussata: un simbolo in seguito così legato al suo nome che ancora quando facevo scuola guida le croci dei passaggi a livello venivano chiamate "di Sant'Andrea". Anzi gli Acta specificavano che Andrea era morto su una croce simile a quella di Gesù; anche in ambito orientale, Andrea non viene associato alla X. Insomma può darsi che sia stato lo stemma scozzese a modificare l'iconografia occidentale del martirio di Andrea, e non viceversa.

lunedì 24 novembre 2025

Ermogene, martire o no

Una gita a... Agrigento (la porta araba).
24 novembre: Sant'Ermogene di Agrigento (martire? IX secolo?)

"È commemorato il 24 novembre nel Sinassario Costantinopolitano e nei menei greci, ma di lui non si sa niente". Così la Bibliotheca Sanctorum, e chi siamo noi per saperne di più? I menei sono martirologi in lingua greca, da cui alcuni agiografi traggono un distico dedicato a Ermogene, però trascritto in latino: 

Caedens, Hermogenes, ex genere mortalium
pudore fastum generis imples daemonum.

Una cosa interessante di questo distico è che nessuno riesce a capire cosa voglia dire: l'ho infatti ricopiato per questo, confidando nel fatto di vivere nel Paese coi licei classici che il mondo ci invidia. Tra tanti diplomati troverò senz'altro qualcuno in grado di sciogliere il secolare mistero. 

Un'altra informazione galleggiante sull'oblio è che Ermogene dovrebbe essere vissuto a cavallo tra VIII e IX secolo, insomma contemporaneo di Carlo Magno: ma se questi nel frattempo invadeva i Longobardi nell'Italia del nord, giungendo fino a Roma e facendosi incoronare a sorpresa (seh, sorpresa), Ermogene, se è davvero vissuto nello stesso periodo, dovrebbe avere assistito all'evento più traumatico del Medioevo siciliano, ovvero l'invasione araba. È in effetti considerato l'ultimo vescovo di Agrigento dell'epoca bizantina; il suo successore sarebbe arrivato soltanto dopo la conquista normanna, più di cent'anni dopo. Forse per questo motivo Ermogene è definito, da taluni, martire; in effetti, figurati se i Saraceni non perdevano l'occasione di tagliar la testa a un vescovo; e se un vescovo perdeva l'occasione di salire al cielo martire. Tutto molto logico e verosimile, salvo che no, sui menei si legge proprio "egli finì in pace i suoi giorni..." L'affermazione è così insolita che ha portato l'autore della scheda su Santiebeati, Raimondo Lentini, a retrodatare il santo di cinque secoli: "Ermogene fu uno di quei santi martiri dell'ultima persecuzione che, sopravvissuti ai patimenti, finirono la vita in pace ai tempi di Costantino". Martiri mancati, insomma, a cui mancò l'occasione, non il coraggio; magari erano già in cella pronti a essere schedulati durante un mezzogiorno al Colosseo coi leoni, senonché Costantino firma l'Editto e niente, tana libera tutti. Questo pur di giustificare la strana ambiguità, per cui un "Ermogene martire" sarebbe però morto nel suo letto. Aggirando con un certo imbarazzo la soluzione più ovvia; forse Ermogene non morì martire perché... gli arabi di Sicilia non perseguitavano i cristiani. 

Cioè, aspetta. Un po' lo facevano. Non è che fossero questi campioni di tolleranza. In particolare negli anni dell'invasione, che fu lunga e tormentata, con frequenti rovesciamenti di fronte, lunghi assedi ed epidemie a peggiorare la situazione. In quel periodo i cristiani, sì, rischiavano la pelle, in quanto nemici o potenziali alleati dei nemici. Ma una volta cacciati i Bizantini, e installato un potere centrale a Palermo, gli arabi non si comportarono con cristiani ed ebrei in modo molto diverso che negli altri territori già conquistati a partire dal secolo VII: chi voleva restare cristiano ed ebreo, poteva assolutamente farlo. 

Certo, avrebbe pagato più tasse.

Fu un metodo straordinariamente efficace, che spiega in parte la diffusione a macchia d'olio dell'Islam, un po' meno rapida di quello di solito immaginiamo perché i popoli conquistati non diventavano immediatamente musulmani. La classe dirigente veniva da fuori o si convertiva subito, se voleva continuare a dirigere; i sottoposti ci mettevano più tempo. Presto o tardi, in ogni caso, il richiamo dello sgravio fiscale si rivela irresistibile, e la maggioranza si converte; dopodiché, alla pressione fiscale si aggiunge la pressione sociale, i cristiani patiscono sempre più la condizione minoritaria che impedisce loro di migliorare le proprie condizioni, ottenendo incarichi più importanti o attraverso matrimoni con famiglie più ricche e benestanti; e il risultato è che nel giro di qualche generazione, la società si islamizza: ma quasi mai completamente. È un processo efficace (anche per una clausola diabolica: quando ti converti all'Islam, non puoi più tornare indietro, l'apostasia è punibile con la morte), ma che richiede qualche generazione, e spiega come mai in Sicilia e persino nella Spagna meridionale, che fu controllata dagli arabi per un periodo molto più lungo, il cristianesimo rimase largamente praticato. Tutto questo è abbastanza noto (come sono note le diverse eccezioni), per quanto confligga con l'opinione comune che invece descrive la società islamica come quella dei Borg di Stat Trek, un unico organismo determinato ad assimilare ogni individuo. Che l'Islam abbia una tendenza assimilatrice non è che si possa negare: dovunque è arrivato ha senza dubbio dato un grande contributo a uniformare molte usanze non solo religiose, e spesso anche la cultura, l'arte e la stessa lingua, in ottemperanza a un testo sacro che diceva, in certe regioni della terra per la prima volta, che tutti sono uguali davanti a Dio. Ma questa idea che appena un esercito arabo arrivava in una città, ogni chiesa si trasformava immediatamente in moschea e ogni cristiano in un circonciso, ecco, ha più a che vedere con una millenaria propaganda che con le nostre conoscenze storiche. 

Questa concezione poi nella storiografia popolare contribuisce a formare l'idea dell'"invasione araba", ovvero un improvviso straripamento dalla penisola arabica – per lo più desertica, e fino a pochi anni prima scarsamente popolata – di una fiumana inarrestabile di invasori musulmani, in grado di invadere e islamizzare nel giro di qualche decennio mezzo mondo conosciuto, dalla Persia fino alla Spagna, come un'epidemia. Tutte le innovazioni umane, in effetti, si possono descrivere come epidemie, che hanno come vettore l'uomo: salvo che in molti casi a viaggiare non è tanto l'uomo, quanto le informazioni. L'Islam, come tante altre religioni e idee prima di esso, non si installò attraverso massacri e sostituzioni di popoli, ma con la pressione fiscale e sociale. Le chiamiamo "invasioni arabe", ed effettivamente possiamo dimostrare che decine di migliaia di arabi si spostarono dall'Arabia ad altri Paesi, mescolandosi soprattutto con la classe dirigente: ma la maggior parte degli abitanti sono rimasti, in questa e in altre occasioni, gli stessi. 

Possiamo paragonare l'invasione araba, mutatis mutandis, a quella napoleonica, che indubbiamente portò migliaia di effettivi francesi in giro per l'Europa (e alcuni di questi fecero in loco brillanti carriere); però non è che i francesi si sostituirono ai tedeschi del Reno, o agli italiani della Repubblica Cisalpina, o agli spagnoli. Furono soprattutto le idee dei francesi a imporsi immediatamente a nuove classi dirigenti che erano tutto sommato abbastanza propense a riceverle e metterle in pratica. Forse, se Napoleone fosse durato un po' di più, anche gli italiani e i dalmati compresi nell'Impero avrebbero iniziato davvero a parlare francese e a considerarsi francesi, così come i siciliani a un certo punto cominciarono a considerarsi arabi; ma ci volle tempo, ed evidentemente non si convinsero mai del tutto. Anche ad Agrigento, che faceva parte del vallo occidentale della Sicilia, la parte più arabizzata, dove si stima che comunque metà della popolazione era ancora cristiana al momento in cui arrivarono i Normanni. 

Questa è la cosa forse più difficile da accettare, per chi la Storia non la studia ma la impugna: che gli arabi di Sicilia fossero per lo più siciliani, e che "arabo", "musulmano", ma anche "cristiano" non siano costellazioni del sangue, ma idee che possono passare da una persona all'altra, non sempre in punta di spada; a volte basta anche un balzello, o anche, perché no, una conversione interiore: sì, esistono anche quelle. Nel frattempo qualcuno di voi avrà già decifrato il distico qui sopra, che sempre secondo Raimondo Lentini significherebbe qualcosa come: "Allontanandoti, o Ermogene, dal genere umano, colmi di vergogna l'arroganza della razza dei demoni". Non è chiaro in che senso Ermogene dovrebbe allontanarsi dal genere umano: forse è un'allusione al misterioso martirio, un sacrificio che avrebbe fatto impazzire di vergogna i demoni. Difficile non pensare che in questi ultimi siano rappresentati i saraceni, a cui Ermogene insegna come muore un cristiano: come un eroe, anche quando morire non è affatto una scelta obbligata. 

domenica 23 novembre 2025

Papa Clemente (e i fili de le pute)


23 novembre: San Clemente I, papa e martire (I-II secolo)

Il primo Papa dovrebbe essere stato Pietro apostolo – senza il quale Roma non sarebbe la sede apostolica più importante, quindi è fondamentale che il primo sia Pietro; e pazienza se le prove del suo apostolato in città sono molto labili. Dopo di lui (crocefisso, secondo la tradizione, nel 64), è il caos; i cronisti ecclesiastici nominano tre successori di cui non si sa praticamente nulla: Lino, Cleto e Anacleto. Potrebbe trattarsi anche della stessa persona. E questa persona potrebbe anche essere Clemente, che nel canone di solito viene dopo Anacleto, ma è il primo vescovo di Roma di cui abbiamo informazioni abbastanza consistenti. Forse per questo Tertulliano, tra gli altri, lo considerava il primo successore di Pietro; del resto Ireneo di Lione sosteneva che nelle sue orecchie "riecheggiava ancora la predicazione degli Apostoli", insomma Clemente doveva aver conosciuto Pietro (e forse Paolo) di persona. Il che non esclude che tra il pontificato di Pietro e quello di Clemente non possa essercene stato un altro (o due, o tre, magari molto brevi). Epifanio da Salamina suggerisce che Clemente, dopo essere stato nominato successore proprio da Pietro, avrebbe rinunciato alla carica in favore di un pastore più anziano; il che non è assolutamente dimostrabile, come tante cose che scrive Epifanio; ma è molto più verosimile di quando lo stesso Epifanio si mette a raccontare di eretici che si nutrono di feti umani. Pensiamo anche solo a Bergoglio, che secondo alcuni avrebbe implorato i cardinali di non eleggerlo nel 2005, così che alla fine a Wojtyla subentrò Ratzinger... E a proposito di quest'ultimo, Clemente è anche il primo papa che avrebbe rinunciato alla cattedra prima della sua morte naturale – per ragioni di forza maggiore, quanto nel 97 sarebbe stato deportato in Crimea per ordine dell'imperatore Traiano. Al suo posto avrebbe nominato un certo Evaristo, ed è proprio scrivendo un pezzo su Evaristo papa, che nell'ottobre del 2011 io misi per iscritto sul Post che nulla impediva a un pontefice di dimettersi. A scriverlo oggi sembra niente di che, ma era una cosa che non succedeva da cinque secoli, e invece sarebbe avvenuta poco più di un anno più tardi, nel febbraio 2013.

Clemente sarebbe morto martire in Crimea, secondo la tradizione annegato con un'ancora al collo affinché la smettesse di convertire i locali. Il che permise più volte a qualcuno di ritrovarne i resti in loco e donarli a un suo successore in cambio di qualche favore; il caso più eclatante fu quello di San Cirillo, che nel nono secolo doveva convincere papa Niccolò I a lasciarlo evangelizzare gli slavi nella loro lingua. Insomma se oggi si usa ancora l'alfabeto cirillico, in qualche modo è anche grazie a San Clemente. Di lui si conserva una lettera ai cristiani di Corinto che dimostra una buona conoscenza delle Scritture anche veterotestamentarie; da cui l'ipotesi che come Pietro non fosse un cittadino romano, ma un liberto di origine ebraica o greca (mentre per lo stesso motivo è abbastanza implausibile che si tratti del senatore Flavio Clemente, il marito di Santa Domitilla: entrambi furono vittime della piccola persecuzione promossa da Domiziano nel 95). La lettera è importante anche perché dimostra, nei confronti dei cristiani di una chiesa orientale, un atteggiamento già pontificale: Clemente non afferma esplicitamente di essere, in quanto successore di Pietro, in cima a una gerarchia; non lo dice ma si comporta già come tale, sembra che lo dia per scontato. 

Clemente, infine gioca un ruolo imprevisto e... imbarazzante nella storia della lingua italiana, anche se per molto tempo nei libri di scuola abbiamo preferito non parlarne. Nella basilica romana a lui dedicata (eretta prima del 1100) si trova un affresco piuttosto malandato che riprende un episodio di una Passio del VI secolo. Clemente è perseguitato da un patrizio romano, Sisinnio, che ha ordinato ai suoi servi (Gosmario, Albertello, Carboncello) di legare il santo e trascinarlo in prigione. Ma i servi, accecati dallo Spirito, hanno confuso il corpo del Papa con una colonna di marmo, e per quanto l'abbiano ben legata, non riescono a spostarla. Si tratta di una scena complessa, che forse l'anonimo pittore riteneva di non riuscire a illustrare adeguatamente, dal momento che decise di corredare l'immagine con i discorsi diretti che aleggiano intorno ai personaggi, come fumetti. In particolare, accanto a Carvoncello qualcuno dice "Falite dereto co lo palo Carvoncelle!" (Carvoncello, spingi da dietro con il palo!); accanto ad Albertello si legge: "Albertel traite!", e accanto a Sisinnio: "Fili de le pute traite". Tutte e tre le frasi probabilmente sono da intendere come ordini pronunciati da Sisinnio. Sopra la colonna, invece, si legge una scritta che dobbiamo attribuire al santo: "Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis". Questo ovviamente è latino, e significa: a causa della vostra durezza (di cuore) avete meritato di trascinare le pietre. Tutto abbastanza chiaro, salvo che tra il santo e i pagani c'è un divario linguistico molto forte. In effetti, se Clemente parla in latino, Sisinnio e i suoi schiavi in che lingua parlano? Hanno già le proposizioni articolate ("co lo palo", "de le pute"), quindi latino non lo è più. Deve trattarsi di un'iscrizione in lingua volgare, salvo che è... la prima in assoluto che troviamo in una chiesa. La prima in assoluto che troviamo in un contesto narrativo. Una storia in cui il volgare è la lingua dei pagani, rozzi e incolti anche quando sono patrizi; mentre il latino è la lingua della giustizia e della fede. L'unica attestazione più antica di una lingua volgare italiana in uno scritto si trova, lo sapete, nel placito di Capua ("Sao ke kelle terre..."), ma in quel caso si tratta di una testimonianza giurata raccolta da un notaio. Certo, ci sarebbe anche l'indovinello veronese, che potrebbe essere più antico addirittura di due secoli, ma in quel caso più che volgare potrebbe trattarsi di un latino maccheronico. 

Con l'iscrizione di San Clemente per la prima volta (per quanto ne sappiamo) qualcuno ha usato il volgare italiano per raccontare una storia. Ed è... un po' imbarazzante, insomma fino a qualche tempo fa nei manuali di Storia della letteratura si tendeva a omettere la circostanza per cui la prima frase letteraria in volgare dovrebbe essere "Fili de le pute, traite". Anche se in fondo, perché no? Significa che l'italiano letterario ha esordito senza pudore, dimostrando subito l'espressività trucida di cui è capace, e prestandola allo scopo di mostrare la rozzezza del potere, anche quando è esercitato da un nobile antico. Comandare ci svilisce, ci abbassa al rango degli schiavi che pretendiamo di possedere; ci rende sboccati e ridicoli; e non sposta nessun santo, non sposta nemmeno una colonna. Se la letteratura italiana comincia così, tutto sommato la rivendico.  

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