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In principio forse c'erano le orme di due piedini in una lastra di basalto lavico. La trovate ancora oggi a Bolsena, nella grotta di Santa Cristina: vi si accede dall'omonima basilica. Si tratta di un reperto singolare, ma non così eccezionale: anche solo in Italia di tracce umane nella pietra lavica ne abbiamo trovate diverse, al punto da farci pensare che forse non siano tutte orme di malcapitati che sfuggono da un'eruzione imprevista. Attorno a un paleovulcano casertano sono state rinvenute addirittura impronte in salita: ovvero, chi le ha lasciate stava andando verso l'eruzione. Doveva evidentemente avere degli ottimi motivi (che ci sfuggono) ed essere munito di qualche specie di zoccolo – e infatti le orme sono prive delle fessure tra le dita. Anche i piedini di Bolsena sembrano essere calzati. Le impronte sono un po' troppo profonde per essere state lasciate da un viandante frettoloso, ma probabilmente la pietra è stata in seguito levigata per evidenziare tracce che in origine erano più leggere. Siccome il basalto grigio è tipico della zona, chi ha lasciato le orme dovrebbe aver lasciato le impronte quando almeno uno dei sette crateri vulcanici era ancora attivo: minimo trecentomila anni fa. Troppo presto per gli homo sapiens e anche per i Neanderthal; potrebbero essere orme di altre creature viventi, poi ritoccate dall'uomo in un secondo momento: oppure tracce di un più antico nostro progenitore, un homo heidelbergensis già molto curioso dei fenomeni vulcanici, e in grado di confezionare calzature già discretamente efficaci. O una progenitrice: per secoli in effetti la taglia ha fatto pensare che si trattasse di piedi femminili. Con l'avvento del cristianesimo, almeno a partire dal IV secolo, diventeranno i piedi di Santa Cristina, impressi sulla pietra a cui era legata e che, nell'intenzione del padre, avrebbe dovuto portarla col suo peso nel fondo del lago. Ma Dio aveva altri piani: la pietra diventò un galleggiante di una consistenza abbastanza morbida, su cui Cristina avrebbe lasciato le sue impronte. Il nucleo primario della sua leggenda potrebbe essere questo: c'erano due orme nella pietra, nessun vulcano attivo da centinaia di migliaia di anni, qualcuno sentiva la necessità di spiegare la cosa.
Cristina morta, scultura di Benedetto Buglioni, Basilica di Santa Cristina, Bolsena. |
Ma non possiamo esserne sicuri: la leggenda ci è arrivata in versioni molto tarde e stratificate, in cui il tentato annegamento è solo uno dei tanti supplizi messi assieme da un agiografo che sembrava voler condensare in una sola figura tutte le torture subite dalle martiri tardoantiche. Forse aveva già in mente le cinque piazze di Bolsena, dove la sera del 23 luglio si devono mettere in scena cinque tableau vivant diversi: dunque un solo supplizio non sarebbe bastato. Cristina non poteva essere stata soltanto annegata: andava flagellata, stirata sulla ruota, bruciacchiata, mutilata di lingua e seni, e infine trafitta da frecce. Tutte procedure abbastanza note ai lettori di agiografie: l'annegamento sembra l'episodio più originale, nonché il solo ispirato alla geografia del luogo. Ma potrebbe anche essere stato aggiunto a posteriori, magari dopo il ritrovamento della lastra di basalto. Se invece ipotizziamo che la lastra fosse già conosciuta nel IV secolo, e abbia ispirato la parte più antica della leggenda di Cristina, dobbiamo porci un'altra domanda: che cosa rappresentava quella pietra, prima che i cristiani se ne impossessassero? Non lo sappiamo, ma è la stessa leggenda di Cristina a offrirci qualche indizio suggestivo.
Rivediamola. Il fatto che alcuni martirologi greci ne collochino il martirio a Tiro, in Libano, potrebbe essere il risultato di un malinteso dovuto a un'abbreviazione ("Tyr"), che in un manoscritto perduto avrebbe alluso alla Tyrrhenia, la regione degli Etruschi. Sin da bambina, Cristina è consacrata dal padre agli dei pagani e reclusa come vergine vestale, in una torre: come Santa Barbara. Ma essendo segretamente cristiana, Cristina gli dei pagani non li sopporta e anzi ne distrugge le statue, come Santa Marciana. Il padre – ufficiale dell'esercito – si arrabbia molto contro questa undicenne impertinente, e ne diventa il più violento persecutore: la fa flagellare e la condanna al supplizio della ruota, come Santa Caterina: niente da fare, tre angeli scendono dal cielo e la guariscono. È a quel punto che il padre propone di legarla alla pietra (nei quadri di solito è una mola) e buttarla nel lago: ma Cristina si salva anche stavolta. Il fatto che il padre muoia a questo punto dalla rabbia (mentre la figlia se la ride) è un altro indizio a favore dell'ipotesi che in un primo momento la leggenda finisse qui, e che l'episodio del tentato annegamento ne fosse il punto cruciale. Ma non bastava: anche gli agiografi devono dare alla gente quello che la gente vuole, e la gente a quanto pare vuole più supplizi. E anche più miracoli, certo. Ma soprattutto più supplizi.
Giovan Francesco d'Avanzarano (1459) |
Cristina, insomma, prima di diventare una santa potrebbe essere stata una dea e questo spiegherebbe il nome – un anacronismo enorme, se davvero l'avesse scelto un padre fieramente pagano. Ma se Cristina era la dea Angizia, è possibile che nel momento di trasformarla in una santa, i fedeli non si siano rassegnati subito all'idea di venerare una vergine tra tante. A Sepino, in provincia di Campobasso, l'anniversario dell'ingresso delle reliquie nella chiesa del Salvatore è festeggiata come una seconda epifania: alla santa viene offerto su un vassoio oro, incenso e mirra. Sono i doni dei Magi a Gesù Cristo; Cristina significa ovviamente "di Cristo", ma è anche il nome femminile più prossimo a Cristo stesso: non una martire qualsiasi, ma una semidivinità che racchiude tutte le martiri, ne patisce tutti i supplizi e come Cristo resuscita ed è resuscitata.
Tornando alla leggenda, Cristina deve patire ancora la mutilazione delle mammelle (come Sant'Agata) e della lingua: quest'ultima viene scagliata dalla santa contro il boia, accecandolo. Infine viene trafitta nella gola dagli arcieri (come San Sebastiano). In questo modo i bolsenesi riunivano in una sola figura la protettrice dai morsi di serpente, dalle infezioni del cavo orale, nonché la patrona dei mugnai (perché era stata legata a una macina), dei marinai e degli arcieri. Con tutto questo, sarebbero riusciti a farsi sottrarre le reliquie nell'XI secolo da due pellegrini che le avrebbero portate, appunto, a Sepino; da lì poi i resti (fatta eccezione per un braccio, rimasto a Sepino) sarebbero giunti a Palermo, dove Cristina conobbe un momento di grande popolarità a Palermo, prima della riscoperta di Santa Rosalia. Ai bolsenesi restava la lastra, che per secoli fu usata come pietra di altare; ma era già stata sostituita nel 1263, quando davanti agli occhi di Pietro di Praga (che segretamente dubitava del sacramento dell'Eucarestia) un'ostia avrebbe gocciolato sangue sulla lastra marmorea dell'altare, che è tuttora custodita nella stessa cappella e che ha un po' eclissato il più antico culto per le orme della santa. Segno che le antiche tradizioni locali cominciavano a essere meno comprese, e che il borgo sentiva la necessità di collegarsi alla religiosità ufficiale, e alla gerarchia romana.